domenica 27 maggio 2012

Fainè sassaresa


Aggiu visthu una teglia d'affainé e mi n'é giunta la gana...

A parte la facile retorica buonista che vuole la cucina come il collante di un improbabile sereno collage multiculturale o l’indice orgoglioso di una delle specificità locali (ah, “il territorio”... quanto ce piace ‘sta parola...) bisogna dire che, alla fine, il cibo unisce sempre, più che dividere.
Intorno a una tavola si mischiano i sapori, i colori e ci si dimentica di essere poi così diversi.
Si impara, soprattutto, ad essere curiosi.
Bisogna proprio essere "balcanici" per rivendicare con smisurato orgoglio la paternità di un piatto (provate a chiedere a greci, turchi e macedoni chi ha "inventato" il baklavà... Ah, ah, auguri!).
Come anche per l'essere umano, l'importante non è tanto la paternità ma un interessante meticciato.
Certi piatti poi sono oramai patrimonio comune, e sarebbe da stupidi mettersi a puntigliare su chi è stato il primo a cuocerli.
Chi ha inventato gli spaghetti? I cinesi? o gli italiani? Ma importa davvero?
L'importante non è essere stati i primi a fare qualcosa ma farla bene...
Nel nostro caso, questo è un piatto comune, almeno fin dove i liguri hanno messo piede fin dal medioevo.
È un piatto antico e diffuso in Liguria, Piemonte, Toscana e in Sardegna: è la fainà de seixi, la fainè, la socca, la cecina, la ceciata...
Chiamatela un po’ come vi pare... ma provate a farla.
Anche se i forni di casa, come per la pizza, non sono adatti perché non raggiungono quelle temperature belle alte che ci occorrono, ed i puristi storcerebbero il naso.
Ma a noi i puristi non piacciono, e anche solo pe' tigna, ci proveremo.

Dunque, la dose è: per ogni 100 g di farina di ceci si usano 300 ml d’acqua, una presa di sale e tre cucchiai d’olio.
Stemperare la farina con l’acqua, con una frusta per evitare grumi, aggiungere il sale e far riposare almeno almeno 2 ore.
In realtà tutti dicono 4 ore, con l’accortezza di rimestare ogni tanto l’intruglio per non far sedimentare troppo la farina.
A questo punto, voi che per lavoro cucinate la fainè andate a farvi una sigaretta, anzi, non sentite?... vi chiamano, di là…
Sì, sì, andate, cari... Ecco, siamo soli...
Dunque, dicevamo: adesso prendete una teglia rotonda; per una dose da 100 g di farina va bene quella da 26 cm di diametro, sì anche quella d’alluminio usa e getta va bene, tanto quelli non ci sentono...
Ungetela con l’olio d’oliva, versarvi la pozione magica, date una leggera mescolatina con il cucchiaio per diffondere bene l’olio e sciùffete! Tuffate in forno a 180° per 20, 30 minuti o, almeno, finché risulti bella dorata in superficie.


La morte sua è una bella grattatona di pepe sopra e via. E passa la viola.
Ah, ovviamente va mangiata bella calda, appena sfornata.
Non pensate neppure per un microsecondo di tenervene un po’ e di riscaldarla.
Lì, davvero, verreste denunciati per crimini contro l’umana decenza.
Perché per la fainè vale la stessa regola del caffè: è bono appena fatto, e riscallato è come un carcio alli zebbedei.
Devo tradurre? No, vero?


Ovviamente, essendo un impasto neutro lo si può arricchire con tutto quello che ci aggrada.
A Sassari, per esempio, oltre che “liscia” la troviamo con le cipolle (tagliate belle sottili e mescolate all’impasto), con cipolle e salsiccia, e anche con le verdurine (zucchine, melanzane, carote a pezzettini piccoli piccoli piccoli).
Mhhh, fammi vedere: che è avanzato in frigo?... 

Detto sardo del giorno
Axina cotta e mur'è arrù, dogna cosa a su tempus suu.
Uva matura e more, ogni cosa a suo tempo.

Oggi ascoltiamo
Duo Poddighe - Drommi Drommi

http://www.youtube.com/watch?v=aWyVje1saqw

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