venerdì 28 febbraio 2014

Piada del cavolo (e pure rosso)

- Senti, i "Flavonoidi" poi non me li hai fatti più vedere. Voglio vedere cosa t'inventi stavolta.
- Ma Leppagorre mi prendi per un negriero, forse? Vai, vai, e ascolta quel che vuoi. Già mi ti debbo sorbire ogni volta che apro il frigo e ti si accendono gli occhi e candu mi bulica la maza, come si dice in Gallura. Sai, non vorrei mai trattenerti più del "dovuto".
- Certo che sei proprio un ingrato, eh?
- Pure... Ho una panza che fa provincia autonoma e ancora hai il coraggio di aprir bocca. Ma va', va'.
- Intanto senza di me l'avresti assaggiato, che so... il cavolo rosso?
- No, non sarebbe mai finito nella mia rete neuronale. Proprio un bel colpo di genio.
- Ecco, vedi? E non sai quanto ti fa bene, a te poi che di verdure ne mangi meno che una iena.
- Meno che una iena, eh?... Buono a sapersi!
- Bizzoso, permaloso e suscettibile! Come sempre.
- Cafone, maligno e doppiogiochista! Immagino da sempre.
- Comunque t'ho portato a far vedere il manifesto, casomai ti venisse la curiosità di venire. Non si sa mai, magari una volta tanto ti fai anche una cultura.
- Ha parlato il conticino Leopardi e le sue sudate carte!
- A parte che non sono un leopardo, vedi forse qualche macchia sul pelo? No, e poi le carte le ho lasciate a Behemot, che aveva un numero da prestigigidazione, stasera.
- Appunto, mi pareva... bonanotte!
- Ma dove vai, vieni qui! Non sei curioso di sentire questo meraviglioso gruppo, che da anni calca le scende di tutto il mondo e che stupisce per la qualità degli arrangiamenti e...
- E... toglimi una curiosità: fossi per caso il loro impresario?
- Ma no, che c'entra!
- No, così, mi pareva. E chi sarebbero, 'sti quattro sgarrupati?
- Ah, meravigliosi! R&B allo stato brado!
- Puro, si dice. Brado solo se fossero cavalli. Anche se il dubbio che lo siano, conoscendoti, mi viene, eh?
- Non ti prendo in giro, guarda qui:


- Non so come ma qualcosa mi suggerisce che tu mi stia prendendo ampiamente per i fondelli. E ancora una volta, aggiungo.
- Malfidato! Su, prepariamoci qualcosa per cena che altrimenti facciamo tardi. Cavolo rosso?
- E che cavolo... sia! E rosso, va'!

Lavare il cavolo rosso, tagliarlo a listarelle e lessarlo in in abbondante acqua poco salata.
Nel frattempo prepariamo una:

Piadina casereccia
200 g   farina
100 ml acqua ca.
2 cucchiai d'olio (o 20 g di strutto, che sarebbe meglio)
un pizzico di sale
Impastare tutti gli ingredienti e lavorare per qualche minuto fino ad ottenere una pasta liscia e omogenea.
Lasciarla riposare al coperto, o avvolta nella pellicola, per una ventina di minuti.

Quando il cavolo sarà tenero, scolarlo e metterlo in una ciotola.
Qui le possibilità sono tante, ma così tante da avere l'imbarazzo della scelta.
Avanza della carne lessata? Dello spezzatino? Una misera fettina che rischia di farsi verde e non dalla rabbia?
Ma che cavolo, unite tutto al cavolo, no?
Una sminuzzata veloce, una ripassata in padella in compagnia di mezza cipolla, in puro stile Picchiapó e il gioco è fatto.


Mi stupisce come molti che cucinano abitualmente continuino a comprare già confezionato del cibo che saprebbero fare in quattro e quattr'otto senza dispendio né di tempo né di impegno.
E quando poi ci si cimenta nell'"impresa" ci si rende conto che ci vuole più a dirlo che a farlo.
Come tutto, del resto.
La piadina non ha bisogno nemmeno di dieci minuti, tra impasto e cottura.
Una volta spianata non troppo sottile si fa cuocere in una padella antiaderente, bucherellandone la superficie per evitare il formarsi di bolle.
Quando inizia a colorirsi si gira e si finisce di cuocere dall'altro lato, quindi si farcisce.
E se non si vuol cucinare ulteriormente è sufficiente una bella fetta di prosciutto e del formaggio morbido (tipo lo stracchino o lo squacquerone, che già al nominarlo dà effetti pavloviani.)


Se poi si vuol fare una botta ipercavolosa, si può sostituire l'acqua dell'impasto con quella di cottura del cavolo, fatta intiepidire.
E se si unisce anche un pizzico di bicarbonato di sodio, oltre a farla più soffice le si accentua la tendenza al blu. Lo stesso effetto si ottiene anche con un po' d'albume nell'impasto.
Insomma una risorsa pratica, veloce e che dà sempre soddisfazioni.
Almeno lei...


- Su, mangiato abbiamo mangiato. Bisogna correre, visto che è già tardi e...
- Oh, che sbadato...
- Che c'è stavolta, non era per il 28 febbraio? Mi pareva d'aver letto che...
- Sì, ad essere il 28 è il 28...
- E allora?
- Ad essere febbraio è febbraio...
- Embè? Dài, che m'hai fatto mangiare con l'imbuto per questo stramaledetto concerto!
- Ehm... Il fatto è che è sbagliato l'anno. Era del 1993...
- Il... mille...e novecento... novantatré?... Ma io ti distruggo!
- Fermo! Ehi, che fai con la bottiglia dell'anice? Fermo!

Ecco, la musica è finita, gli amici se ne vanno, che inutile serata...

Aforismo del giorno
Un moscerino nasce alle nove del mattino, nei giorni di grande estate, per morire alle cinque del pomeriggio; come potrebbe capire la parola notte? Dategli cinque ore di più di esistenza e la capirà.

Stendhal


Oggi ascoltiamo
Ornella Vanoni - La musica e finita

http://www.youtube.com/watch?v=A5Cw7lv4fRs

P.S.
È davvero esistito un gruppo chiamato "The pets are cool" che suonava musica R&B, ma non ho fatto in tempo a sentirne l'esibizione. Però la prima volta che ho letto il nome sono stato quaranta minuti piegato in due dal ridere.
Esiste davvero una via Bartolomeo Centogatti, nella zona di Tor Pignattara chiamata Certosa, per via di un monastero presente sulla collina antistante.
Il ristorante "La lampara" non c'è, in compenso abbiamo "Betto&Mary", segnalato anche dal Gambero Rosso. E tanti, tanti ristoranti cinesi.

martedì 25 febbraio 2014

Polpette di trippa

Già sappiamo che la cucina casalinga vive di eventualità, di imprevisti, di cose dimenticate, specialmente nel frigorifero.
Di una serie ininterrotta di "Metti che..." coniugati in ogni funambolica variazione.
Metti che quella bella vaschetta di trippa stia ad aspettare placida che si compia il suo destino.
Che però, tra una cosa e l'altra, non arriva mai...
Due giorni dopo qualcosa fa presagire l'intervento del secchio dell'immondizia e il fagocitamento di questo di tanto (poco) amato bene, a meno che non si corra subito ai ripari. Ma che fare?  
- Che fare?... - Torcendosi le mani come Rossella Falk in un dramma pirandelliano. - E perché, perché mai ho scelto la trippa? Oh, lo so, lo so, tutto ciò mi porterà alla sventura, e sarò perduto! Perduto!
Scavando così un solco tra la sala e la cucina per escogitare qualcosa che non sia la solita "trippa al sugo".
Non che si mangi tutti i giorno, certo, ma perché non provare qualcosa di diverso, già che ci siamo?
Quando i dubbi assalgono in modo così angosciante e tormentoso solo i consigli dei nostri vecchi saggi possono venirci in soccorso.
Non accendo il computer, non faccio surf tra le migliaia di pagine (1.690 mila, mica una) in cui a proposito e a sproposito è nominata la parola "trippa", ma prendo un libro.
Che spesso basta e avanza.
Non è il Liber Juratus Honorii e nemmeno il famigerato Picatrix, o uno dei tanti terribili grimori della tradizione occulta.
È "La Scienza in cucina e l'Arte di mangiar bene" di sor Pellegrino Artusi, che mai tradisce e che sempre consola.
E questo alla voce "trippa" mi titilla l'orecchio interno con la ricetta 334.
Che recita così:

334. Polpette di trippa
Questo piatto, tolto da un trattato di cucina del 1694, vi parrà strano e il solo nome di trippa vi renderà titubanti a provarlo; ma pure, sebbene di carattere triviale, coi condimenti che lo aiutano, riesce gradito e non grave allo stomaco.
Trippa lessata, grammi 350.
Prosciutto più magro che grasso, grammi 100.
Parmigiano grattato, grammi 30.
Midollo di bue, grammi 20.
Uova, n. 2.
Un buon pizzico di prezzemolo.
Odore di spezie o di noce moscata.
Pappa non liquida, fatta di pane bagnato col brodo o col latte, due cucchiaiate.
Tritate con la lunetta la trippa quanto più potete finissima. Fate lo stesso del prosciutto, del midollo e del prezzemolo, aggiungete le uova, il resto, un poco di sale e mescolate. Con questo composto formate 12 o 13 polpette, che potranno bastare per quattro persone, infarinatele bene e friggetele nell'olio o nel lardo.
Ora fate un battutino con un quarto scarso di cipolla di mediocre grossezza e mettetelo in una teglia proporzionata con grammi 60 di burro e, colorito che sia, collocateci le polpette, annaffiatele dopo poco con sugo di pomodoro o conserva sciolta nel brodo, copritele e fatele bollire adagio una diecina di minuti, rivoltandole; quindi mandatele in tavola con un po' del loro intinto e spolverizzate di parmigiano. L'autore aggiunge al composto uva passolina e pinoli, ma se ne può fare a meno.


Ora, come si può non accogliere un invito così seducente?
Capirai, la trippa, mica il boscaiuolo dell'Arkansas...
E poi una ricetta del Seicento, mica cotiche.
Pare l'abbia presa dal trattato "Lo scalco alla moderna", di Antonio Latini, gran cuoco del cardinal Barberini e poi della corte napoletana, scritto appunto nel 1694, due anni prima della sua morte.
E così preparo sul tavolo i miei cari ingredienti, tranne il midollo di bue che proprio non ho tempo, modo e voglia di andare a trovare in giro per Roma, e inizio a tritare...
E tritare... e tritare... Non è solo difficile tritare con la lunetta la trippa, è un vero esercizio per braccine informi.
Mi sentivo tanto Andrej Romanovič Čikatilo, la simpatica personcina che tritava le vittime e ne faceva dei deliziosi, a suo dire, pel'meni.
Sì, insomma, dei ravioloni...
E la trippa, pur essendo bovina, qualche scrupolo me lo instilla.
Un altro segno "sì" nella tabella interiore a favore del vegetarianesimo.
Insomma l'impasto è pronto, bello e infarinato.
Non resta che friggere.


E secondo me ci si potrebbe anche fermare qui, senza invischiarsi nell'umido insidioso dell'intingolo.
Ma se Pellegrino dice: "Saltare con un cencio avvolto sul capo e le mani su di esso giunte a guisa di ballerina di danza classica" che si fa?
Si balla, che diamine!
E quindi nel padellone, asciugato alla bell'e meglio dall'olio di frittura, faccio appassire nell'olio mezza cipolla e quindi verso la passata di pomodoro.
Indi, in bella e funzionale disposizione, le polpettine di trippa, che attendeva ansiosa questo momento.
Un  sospiro di sollievo mi arriva come il suono lontano d'un'onda marina.


Bastano pochi minuti.
E senza uvetta e pinoli, mi raccomando.
Se lo dice sor Pellegrino...

Aforisma del giorno
Non é vero che abbiamo poco tempo: la verità é che ne perdiamo molto.

Seneca

Oggi ascoltiamo
Sarah Vaughan - My One And Only Love

http://www.youtube.com/watch?v=cZKd7oAFFm0

domenica 23 febbraio 2014

Marshmallow Pie

- Sta^nco!
- Eh, ho capito, sei stanco. Ma senza dovermelo cantilenare. e con quella faccia, poi. Pare che ti abbiano appeso per i baffi su per il soffitto!
- Ma insomma, io non capisco! Invece di fare un istruttivo giro di pasticcerie locali, che so, da Giorgio, Minni e Luana, ci ritroviamo sempre a passeggiare per interminabili corridoi con su appesi mica gatti deliziosi come me, no: qui vecchie babbione vestite come nemmeno io le ho viste mai; lì paesaggi d'una noia mortale, che credo il pittore sia morto stecchito prima di dare l'ultima pennellata; lì ancora statue che era meglio fossero rimaste a dormire il sonno dei giusti in fondo alla mente dei loro esecutori senza dover deturpare per sempre i fianchi delle montagne da cui sono stati cavati i blocchi. E lì, poi...
- Oh, senti, che c'è? Hai fame, per caso? Vuoi una bella barretta ai quasicereali con pseudocioccolato e sintofruttasecca?
- No. Voglio un panino col lampredotto!
- Se, lallero! A quest'ora scordatelo. Così mi ricoverano in qualche Spedale e ci ritroviamo tra qualche mese al Cimitero degl'inglesi! È quello il mio posto, già lo so.
- Esagerato, che sei! Io non so chi me lo fa fare a seguirti!
- Me lo sono chieso anch'io, sai? Ed ho un temibile sospetto...
- E senza alcun vantaggio, poi! Fossi una sollecita gattara di quelle con la ciotolina sempre pronta e...
- Le faresti tirare le cuoia nel giro di mezza giornata, te lo dico io! Magari chiedendo loro la salsa tonnata da mettere sul polmone!
- Perché, non ci va?... Credevo che...
- Guarda, non è che faccia salti di gioia portando questa zavorra pelosa nelle trippe, che ti credi, però giuro che tra cinque minuti si esce, va bene?
- Non so se ce la posso fare...
- Sembri un bambino che se la stia facendo addosso, ma insomma! Guarda là, piuttosto, devono aver restaurato il Botticelli. Diamo un'occhiata, su.
- Aspetta, magari poi tra tutta quella folla ti senti male...
- Tu che ti preoccupi di questo è una vera novità. Non è che stai male tu? Dài, andiamo a vedere cosa...


- Che c'è non ti piace il verde?

L'amaro si cura con il dolce, chi lo diceva? Galeno, la medicina cinese o l'ex-suocera?
Certe volte ci vorrebbe una vera terapia d'urto: un tuffo di faccia in una vaschetta da 500 grammi di mascarpone e tanti saluti. D'altronde se c'è chi beve per dimenticare, non vedo perché io non possa mangiare.
Solo che così facendo faccio ancora una volta un favore al demoniaccio colle vibrisse, e la cosa non è che mi sia molto di sollievo.
Comunque, visto che gli avanzi incombono senza pietà, vediamo di utilizzare quella confezione di  marshmallow che minaccia di scomporsi negli elementi primari: azoto, ossigeno, idrogeno e via dicendo, e che tenevo per ogni evenienza da quasi un anno in dispensa.
Chi non ha dei marshmallow in dispensa?
Va bene, va bene, ho capito...

Marshmallow Pie

Fondo (che abbiamo abbondantemente già toccato...)
200 g     biscotti Digestive o similia
100 g     burro
Sbriciolare i biscotti, meglio ancora tritarli, unire il burro fuso e distribuire sul fondo di una teglia, meglio se con cerniera. Ma si presta egregiamente all'uopo anche lo stampo usa e getta d'alluminio.
L'ìdeale sarebbe di foderare il bordo della teglia con una striscia d'acetato (sì, quella che il fruttarolo usa nelle cassette per proteggere la frutta dalla polvere), che faciliterà poi l'estrazione del dolce dallo stampo.
Far rapprendere in frigo per almeno 15 minuti.

Corpo
300 g   marshmallow
200 ml latte intero
250 ml panna
In una casseruola far sciogliere i marshmallows con il latte, mescolando con santa pazienza.
Fra raffreddare bene, quindi unire la panna montata, incorporandola senza smontarla, rendendo il composto omogeneo.
Lasciar riposare in frigo almeno un paio d'ore.


Topping
Succo di due arance, e scorza grattugiata di una
Succo di un limone
Un cucchiaio colmo di marmellata di albicocche (facoltativa, ma se sì meglio quella un po' gelatinosa)
Due fogli di colla di pesce
Ammollare la colla di pesce in acqua fredda, quindi strizzarla e scioglierla in poca marmellata setacciata e fatta scaldare in un tegamino, mescolando bene per non ottenere grumi, quindi aggiungere il succo della frutta, fatto passare per un colino.
Si può anche solo usare il succo degli agrumi, senza colpo ferire, ma in tal caso sciogliere la colla di pesce in un micro-sciroppo con un paio di cucchiai di zucchero e altrettanti d'acqua.
Versare sulla superficie della torta, accertandosi al tatto che questa si sia rappresa, e far rassodare in frigo per almeno un'ora.
Passare una lama lungo tutto il bordo della tortiera (e della striscia d'acetato, se questa è stata utilizzata) e sformare il dolce trasferendolo su un piatto, aiutandosi con una paletta di metallo.
Insomma, non facciamo danni, ché il Cosmo di suo ha già sufficiente e bastante entropia senza che ve ne aggiungiamo di nostra.

- Hai rimesso tutto al suo posto, mostro?
- Sì, anche se, devo dire, non è che la tizia sia poi così avvenente, eh? Con quel collo lungo da fenicottera...
- Certo, meglio un gattodemone obeso con annessa parannaza e ammenicoli a seguito, vero?
- Ammé?...
- Sì, vabbè... Ciao!

Detto romano del giorno
Parola detta e ssasso tirato nun aritorneno più indietro.

La parola detta e il sasso tirato non tornano mai indietro.


Oggi ascoltiamo
Röyksopp  - Remind Me

http://www.youtube.com/watch?v=eo4u4JJAPGk

sabato 22 febbraio 2014

Frappe, ravioli, e il Carnevale è servito

- Dove andiamo per Carnevale?
- Ma Leppagorre dove vuoi che andiamo, secondo te? Qui contiamo i centesimi e pensi che si possa prendere e andare festeggiare così, allegramente?
- È nei momenti di crisi nera che le persone si buttano nelle danze e nei piaceri sfrenati. Ricordo che nel '29...
- Senti, a "piaceri sfrenati", qui non è aria di far festa, e poi la musica assordante non l'ho mai sopportata.
- Cioè, nemmeno quando eri giovane, e si parla di secoli fa, andavi a ballare?...
- No, proprio no, anche se poi alla fine mi diverto, eh? Ma, non so, la musica troppo forte mi infastidisce...
- Ah, ecco, mentre quella etnica no, eh?
- E tu come lo sai? Ah, già... Quella povera martire della mia ex-moglie s'è dovuta sorbire interi concerti di fado portoghese e la morna della pora Cesária Évora, gli strilli da gatte scorticate delle Voci Bulgare e, onta delle onte, due ore di Sajncho Namčylak.
- Povera donna... S'è impiccata alla maniglia della porta, vero?
- Fai poco lo spiritoso, Leppa, che non è aria.
- Con te non è mai aria!... Andiamo al Mucca, allora!(1)
- Lo fanno di venersì, e poi non mi piacciono i locali troppo "settoriali"...
- Ma se ormai ci vanno in maggioranza gli etero!
- Appunto...
- Andiamo in qualche piazza!
- Ma no, no, e a far che? Non se ne parla nemmeno!
- Che barbogio che sei! Dimmi tu se uno di seicento anni...
- Seicentoventitré, mi pare.
- Sì, va bene, quelli, deve rinchiudersi in casa a sentire i gargarismi delle voci bulgare e sorbirsi semolino scondito.
- Sei un animale senza matricola, Leppa, un essere infame, un... demone, ecco!
- E sai che novità!
- Sai che si fa? Un bel fritto di frappe e ravioli, così ti cheti e non rompi li zebbedei!
- Oh... E ci voleva così tanto per estorcerti un fritto? Che fatica, figlio santo!
- Maledetto...

È ormai un fatto appurato da tempo che esistono più ricette di frappe che posizioni del Kamasutra.
Laddove l'anatomia impone dei limiti alla capacità combinatoria delle membra umane, in cucina questo stranamente non avviene, e con soli quattro ingredienti, i soliti farina, uova, grassi e liquore, si riesce ad ottenere una vasta gamma di ricette.
Che sì, hanno tanti nomi diversi: chiacchiere, bugie, frappe, e così via ma, stringi stringi, si tratta sempre della stessa cosa.
Un semplice impasto tagliato a strisce e fritto, da mangiare caldo o freddo, spolverato di zucchero a velo o fatto a raviolo con un buon ripieno di ricotta ben condita…
E serviva scriverci ancora sopra?
Eccome! È notorio che sono proprio le cose più banali quelle che si rischia di perdere per strada.
Figuriamoci le ricette delle frappe...

Frappe
200 g farina
2        uova
1 bicchierino di liquore*
1/2 cucchiaio di zucchero
poco burro fuso, o un cucchiaio d'olio
una punta di lievito
un pizzico di sale
buccia di limone grattugiata (facoltativa)
Mescolare tutti gli ingredienti e formare un impasto che andrà fatto riposare per almeno venti minuti, mezz'ora, prima d'essere steso non troppo sottile, tagliato con la rotellina ondulata o anche con un coltello, e fritto in abbondante olio bollente.
Una volta dorate, le frappe si mettono su un piatto foderato di carta assorbente per togliere l'eccesso d'olio e quindi spolverate di zucchero a velo.
* Come liquore si può usare grappa, alchermes (che le farà belle rosate), sambuca, Strega, limoncello o altro a piacere. L'importante è non ometterlo, visto che è proprio l'alcool che rende morbido l'impasto favorisce la formazione delle bolle in cottura.
Ehm, io ho usato della vodka, ottenendo delle friabili e deliziose fruappje...

Per dire con quanto poco si possono fare le frappe, ricordo che mia madre, che notoriamente non amava molto cucinare, ne faceva sempre qualcuna sfruttando parte dell'impasto della pasta fatta in casa, friggendolo e spoverandolo poi di zucchero semolato. Compatte e rustiche, sì, ma alla fine erano buone anche fatte così.

Ravioli
300g farina
3       uova
4 cucchiai zucchero
4 cucchiai olio evo (o 50 g di burro sciolto, o strutto)
una punta di lievito
un pizzico di sale 

Per il ripieno
450g  ricotta
1       tuorlo
2 cucchiai di zucchero
1/2 bicchierino di liquore (Alchermes o similari)
una punta di cannella
buccia limone grattugiato


Lavorare gli ingredienti e far riposare l’impasto la solita mezzora.
Formare una sfoglia alta 3 mm, ricavarne dei cerchi con un coppapasta o con una rotella dentata,  riempirli con il composto di ricotta e chiuderli facendo uscire l’aria e sigillando bene i bordi per evitare di far uscire il ripieno durante la cottura.
Friggere a doratura in abbondante olio bollente, quindi spolverare con zucchero a velo.


Come si vede non ho resistito, e ne ho fatto anche qualche culurgione... Il problema è che vanno ben serrati in chiusura o rischiano di aprirsi durante la friggitura, con sommo disdoro per l'ambizioso quanto pecione aspirante cuoco.

- Sono pronto!
- Pronto? Per cosa?... Cosa???


- Che c'è, non ti piace il rosso?...

Detto romano del giorno
La peggio rota der carro è quella che strilla.

La peggior ruota del carro è quella che stride.

Un inno a una prudente temperanza o a una quieta rassegnazione di fronte alle storture del mondo? Fatto sta che rispecchia quella disincantata indolenza che è uno dei più grandi pregi e uno dei più grandi mali dell'essere romani. O italiani.

Oggi ascoltiamo
Billy More - Up Down

http://www.youtube.com/watch?v=Ma2d9j_5U4A
Anche le migliori drag se ne vanno, e senza alcun clamore...

giovedì 20 febbraio 2014

Quattro-quarti al cardamomo e arancia

La nonna di tutte le torte, la Lucy dei lievitati, la capostipite di tutti i dolci da forno è tornata.
Anzi, in realtà non se n'era mai andata.
In ogni ricettario che si rispetti ha sempre il suo bel posto di riguardo, come un palchetto d'onore a teatro, magari anche sotto falso nome.
Come la contessa Carmilla Karnstein, che diventava Mircalla o Millarca ma sempre vampira era (1).
Si riconosce al primo sguardo anche quando la vediamo coniugare al cioccolato, alla frutta secca o alle spezie.
È sempre lei, e senza mai perdere la sua semplice signorilità.
Perché ad essere semplice è semplice, eccome.
Sappiamo già che basta pesare le uova e, di seguito, gli altri tre ingredienti della pasticceria: farina, burro (o altri grassi) e zucchero per ricavarne le dosi.
Meglio di così?
E poi c'è anche il fatto che non prevede lievito. Non le serve.
Le basta la forza lievitante delle uova, specialmente se montate separatamente, per dare il meglio di sé.
È proprio una Signora, e qui la maiuscola ci sta davvero tutta.
E se si vuole tentare un accostamento mai provato che c'è di meglio di una Quattro-quarti?
Col suo sapore discreto fa subito capire, accompagnandoti per mano, che funziona: vai, procedi pure; oppure, discretamente, la senti a voce bassa che fa: ragazzo, lascia perdere.
Non avevo mai provato arancia e cardamomo, ed ero curioso di sperimentare questa combinazione di sapori su una tortina piccina picciò.
E quale meglio di lei?

Le dosi sono sempre le stesse:
Per una torta da 20 cm di diametro:
3    uova
180g    farina
180g    zucchero
180g    burro

Altre dosi:
 24 cm        4 uova (e 250g di farina, burro, zucchero)
 15 cm        2 uova (e 120g di farina, burro, zucchero)

Il procedimento è il solito delle paste montate al burro: si lavora il burro ammorbidito a temperatura ambiente con lo zucchero; si incorporano poi le uova, una a una, amalgamandone bene al composto una prima di unire la successiva.
In questo caso ho aggiunto anche sei bacche di cardamomo, da cui ho estratto i semini, pestandoli finemente in un mortaio, e la buccia grattugiata di due arance.
Degli agrumi infatti non è il succo a dare il sapore ma la buccia, col suo olio essenziale.
Se qui aggiungessimo anche il succo, poi, Nostra Signora delle Torte perderebbe l'equilibrio, e rischierebbe d'andare a zampe all'aria. E noi non siamo così cafoni da mettere in pericolo una Signora, no?
Infine si unisce all'impasto la farina e, se presenti, altri ingredienti.
Se la si vuole più soffice basta dividere i tuorli, da unire al composto di burro e zucchero, dagli albumi, da montare a neve ed aggiungere alla fine, alternati alla farina, con i soliti cauti movimenti dal basso verso l'alto.
E col cucchiaio di legno, mai con la frusta, pena la catastrofe.
Cuocere a 180° per circa 40 minuti.
Prova stecchino alla fine, come sempre. 


NOTE
1) "Carmilla", dell'irlandese Sheridan Le Fanu, è sì la nipotina del "Lord Ruthven" di Polidori (che fu pubblicato nel 1819) ma anche la nonna di tutti i vampiri letterari, anticipando di venticinque anni il celeberrimo conte Dracula di Stocker (scritto nel 1897). Alla faccia della saga adolescenziale di Twilight e i suoi vampiri fighetti che brillano al sole come in un mare di porporina. Francamente insopportabili...

Detto inglese del giorno
All that glitters is not gold

Non è tutt'oro quel che luccica


Oggi ascoltiamo
Siouxsie and the banshees - Last beat of my heart

http://www.youtube.com/watch?v=0Ul7bqFguPg

mercoledì 19 febbraio 2014

Panessugo

- Ho fame!
- È presto per pranzare, Leppagorre. Non fare il cucciolo di duecento anni, eh?
- Ho fameee!
- E chetati, che non è aria, eh?
- Ho famissima!
- E basta! Non c'è niente di pronto, e non ho intenzione di ficcare le dita in una scatoletta di tonno o prendere a morsi una scamorza solo perché tu hai le fregole!
- Ho famerrima!
- Adesso ti metto in un barattolone di vetro con due litri di liquore all'anice e ti vendo al museo come feto deforme!
- Cattivo! Non hai il minimo rispetto per chi accanto a te soffre, da chi è assediato dallo spettro fosco dell'inedia e a breve potrebbe anche avere dei malori...
- Prima che tu possa avere dei malori dovresti poter smaltire quelle trippe che ti ritrovi, e credo che faresti in tempo a vedermi stirà le zampe (1) piuttosto!
- Ma quando eri cucciolo tu, secoli fa, e avevi fame, cosa ti dava tua madre?
- All'epoca, secoli fa - come dici tu, maledetto infame - non s'era ancora diffuso l'uso di merendine e stuzzichini confezionati. Se avevi fame una bella fetta di pane e olio spolverata di zucchero, o di sale e via. E nei casi più gravi, fetta di casereccio spalmata di burro e inzuccherata.
- E poi?
- Poi s'usciva a giocare o si andava a fare i compiti da qualche compagno di classe, e basta. Che altro?
- No, dico, basta così col cibo?
- Ma che... ma secondo te un ragazzino di otto o dieci anni mangia come un demone incarnato?
- Perché no? io a otto anni bevevo sei litri di latte a pasto. Dopo il passato di fagioli con cozze soffritte all'aglione, ovvio.
- Dimentico sempre che sei un demone, e quindi leggermente cazzaro.
- Cattivo!... E insensibile! E ti ricordo ho fame!

E per far tacere le voci di dentro, che tacciono solo nei momenti in cui si mastica e s'ingolla, taglio due fette di pane casereccio che chiede pietà.
Chi vive solo mica può panificare due volte a settimana, quindi arriva il punto in cui la bella pagnotta croccante e fragrante si trasforma in un fossile marmoreo con vari sentori fungini che poco lasciano sperare sulla possibilità di poterlo chiamare ancora e impunemente "pane".
Così, pur di non gettarne via nemmeno un pezzo, che è la cosa più triste al mondo - tristerrima, come direbbe lui - ecco tutto un fiorir di zuppe, di polpette e panzanelle alla toscana maniera.
Stavolta l'odore è ancora decente, si riesce ancora a tagliare con il coltello senza assoldare alcun boscaiuolo - come direbbe una mia amica amante del genere country - per ricavarne delle porzioni mangiabili.
In una padella faccio appassire nell'olio un po' di cipolla, a piacere, e quindi vi faccio andare della salsa di pomodoro.
Appena bolle metto il pane e, dopo qualche minuto, appena inizia ad ammorbidirsi, lo giro e lo faccio intridere bene di sugo.


Spolverata di parmigiano e/o di pecorino e basta così.
La buona sobrietà di una volta.
Questo, a lui non l'avevo detto, era per me un antipasto.
Sì, perché certi "cuccioli", secoli fa, erano capaci di farsi due fette di pane al sugo così e poi, serenamente, una scodella di pasta, sempre al sugo, ovvio.


Quanto scalda il cuore un piatto di cari ricordi...

Detto romano del giorno
Misurà er passo seconno la gamma.

Misurare il passo secondo la lunghezza della gamba


Oggi ascoltiamo
Depeche Mode - Walking in my shoes

http://www.youtube.com/watch?v=GrC_yuzO-Ss

NOTE
1) Stirà 'e zampe - Ossia allungare le gambe, è tirare le cuoia. S', insomma, morire.

domenica 16 febbraio 2014

Cassata Oplontina


Fino a poco tempo fa non sapevo che Oplontis fosse un'antica città romana vittima, assieme a Pompei e Ercolano, del cataclisma del 79 d.C.
Lo credevo invece il nome di una gens con cui usava designare anche la loro villa signorile, una di quelle riscoperte solo dopo quasi venti secoli grazie alla curiosità e la tenacia degli archeologi.
A Oplontis - dove oggi s'estende l'odierna Torre Annunziata - venne ritrovata nel Settecento un'immensa costruzione, in parte ancora semisepolta sotto lo spesso strato di lava, e quindi tutt'oggi inesplorata.
Una villa enorme, con diverse sale, giardini (uno dei quali così ampio che pare fosse un uliveto) e poi una zona termale e numerosi portici, terrazze e, manco a dirlo, anche una piscina circondata da statue.
In base a un'iscrizione murale fu attribuita a Poppea Sabina, la spregiudicata seconda moglie di Nerone. Quella che oggi chiameremmo senza dubbio alcuno una micidiale strappona (1).
Ciò che è stato liberato dalla gabbia di pietra è notevole, e stupisce sia per la complessità della struttura che per la bellezza dei ritrovamenti. Non stupisce invece che l'UNESCO l'abbia inclusa dal '97 tra le opere patrimonio dell'umanità.

 
Il velo che copre un cesto colmo di frutta sembra quasi aspettare che una mano lo sollevi...

Gli affreschi delle antiche ville romane hanno una leggiadria immutata nei secoli, e ancora oggi riescono a stupire per l'accuratezza dei particolari e la semplicità delle raffigurazioni.
Quelli di Villa di Livia e di Villa della Farnesina, per esempio, custoditi al Museo di Palazzo Massimo a Roma, sono di una bellezza spettacolare che ogni volta toglie il fiato.
Le stanze divise nei classici colori ocra, nero e rosso (appunto) pompeiano, hanno un fascino sottile che supera il tempo, e fa ancora piacere abbandonarvi lo sguardo e perdersi nell'intrico di quelle geometrie perfette.
È inevitabile allora provare come una sottile nostalgia, una sorta di rammarico impotente per quello che, chiuso nelle teche d'un museo, fa parte di un passato oramai perso per sempre.
   
In uno dei tanti affreschi presenti nella Villa di Poppea ce n'è uno dove compare, tra uno svolazzo d'uccelli e una natura morta, un treppiedi su cui è poggiato un dolce.
Strano, perché a guardarlo, se non fosse per il bordo che invece d'esser verde è di un rosso acceso, parrebbe proprio una cassata di quelle siciliane dei tempi moderni.
E infatti è chiamato proprio la cassata di Oplontis.
La ricetta di questo dolce però non è riportata in nessuno dei documenti che ci sono pervenuti sulle usanze culinarie degli antichi Romani. Non la nomina Catone, il Censore, come neppure Apicio, che più d'un gastronomo era un gaudente sensazionalista (2).
Eppure gli archeologi e gli storici, studiando le abitudini alimentari dei popoli del passato e la gamma di ingredienti che costoro potevano conoscere e utilizzare, sono arrivati a supporre un'ipotetica struttura del dolce misterioso, dandone anche delle indicazioni sufficientemente plausibili.
Il Comune di Torre Annunziata, ovviamente, ha preso la palla al balzo per patrocinare la diffusione di questo archeo-dolce, che oggi è servito in diverse pasticcerie della zona, e si propone  - avendone tutti i numeri - di  diventare il dolce caratteristico dei torresi.


Quello che molti ancora non sanno è che di recente sono stati rinvenuti, in una camera finora prigioniera della lava, diversi papiri miracolosamente scampati alla furia del fuoco.
"I manoscritti non bruciano" diceva er sor Woland, e questo è uno di quei casi fortunosi in cui si ringraziano le varie concomitanze che hanno permesso di portare ai nostri giorni cose che altrimenti sarebbero andate perse per sempre. In uno di questi papiri, guarda caso, è riportata proprio la ricetta del dolce in questione.
Sembra che chi la scrisse non avesse molta dimestichezza con la lingua del tempo, visto l'uso d'un latino sgrammaticato e scorretto.
Di sicuro non era un letterato (un tipo come Apicio, tanto per capirsi) ma s'è supposto che fosse invece un semplice cuoco che abbia avuto la necessità di prendere appunti per un suo ricettario.
A quel tempo tutto il personale di servizio delle famiglie abbienti, e quindi anche i cuochi, era costituito da schiavi, sia locali che delle più lontane province. Di sicuro questo ignoto pasticcere aveva ricevuto un'istruzione tale che gli permetteva di poter scrivere, ma non essendo di madrelingua latina aveva una dimestichezza del tutto superficiale con la lingua di Roma.
Ecco il contenuto del papiro, così com'è stato trascritto dai ricercatori:

Metti tres unce  praecoquis, tres unce pruni, et tres unce uve vietum.
Fructi siccus sminuti cum media luna cultellus aut solitus cultellus, si optas pro plus magnum fragmentis.
Coxi in melis tres unce nuxis et duus unce pineolusi, quoad duru factu est. 

Bada nun scottaribus digitam, quod meli tantus caldus est. 
Dulcis duru rectum refrigera inde frangi illu in exiguis fragmentum. 
Miscea multus tres libras caseo ovini quod mollis facta est. 
Indi addici media libra meli et pianus pianus miscea cum casu.
Dulcis duru fragmentatus addici et rectum miscea omnis.
Farina amygdalis miscea cum meli et coccinigliam pulvis.
Coperire bordus pentolae cum cunfectus amygdale et in centrum poni compositus casu et poni in locus frigidus ad rectus tempus.

Potui impendere armarium cum gelus, si dominus tuus habet illu.
Super patellam cassatae poni, indi velu casus rectum misceatum super dulcis poni
Decoras cum noxis, dactylis, ficus vietum.
Adversa fortuna qod Hispania panis non ancora inventatus est!...


La ricetta rispecchia in modo sorprendente quella riportata da Eugenia Salza Prina Ricotti nel suo pregevole "Ricette della cucina romana di Pompei e come eseguirle", Ed. L’Erma di Bretschneider, Roma.

Cassata Oplontina
(Per uno stampo di 20 cm di diametro e, eccedendo leggermente, anche per una mignon).
1 kg   ricotta (meglio se di pecora)
250 g miele
80 g   albicocche secche
80 g   prugne secche
70 g   uva passa
60 g   pinoli
100 g noci sgusciate
una decina di datteri snocciolati

Per il bordo esterno del dolce
150 g di farina di mandorle
2 cucchiai di miele
colorante rosso.

Tagliare finemente la frutta secca (albicocche, prugne e uva sultanina). Far cuocere in poco miele le noci e i pinoli fino a caramellarli.
Lasciar raffreddare bene, quindi spezzettare il croccante.
Passare 850 g di ricotta al setaccio  lasciandone 150 g per la decorazione.
Lavorarla per renderla cremosa e soffice, quindi aggiungere pian piano il miele, incorporandolo alla ricotta.
Unire al composto la frutta secca e il croccante sminuzzati.
Coprire il bordo di uno stampo rotondo con una striscia di carta forno (bagnata e strizzata) leggermente inumidita d'olio.

Impastare la farina di mandorle con del colorante rosso (si può usare anche il succo di 50 g di lamponi, e in questo caso aggiungere anche un paio di tuorli omettendo il miele) e del miele quanto basta per formare un marzapane con cui foderare le pareti dello stampo.
Versate il composto di ricotta all’interno dello stampo rendendolo uniforme e lasciarlo rassodare in frigo per almeno una notte (meglio sarebbe un giorno intero).
Sformare la cassata su un piatto da servizio, staccare delicatamente la carta oleata, coprire la superficie del dolce con la rimanente ricotta lavorata a crema.
Decorare con datteri e altra frutta secca a piacere.
Se si preferisce si può dare una sorta di lucidatura alla frutta secca in superficie spennellandola con una miscela di miele ed acqua in ugual misura. 
Volendo per la copertura si possono usare anche i datteri ripieni di ricotta, un'altra ricetta antico romana: si lavorano a crema 50 g di ricotta con un cucchiaio di miele e con questa si riempiono dei datteri snocciolati, completando con dei pinoli tostati 'ncoppa.


Ovviamente va mantenuta in frigo, e può essere consumata in tre o quattro giorni (potendocela far arrivare...)

Con queste dosi ho ricavato anche una minicassata oplontina (che detto così sembra un'imprecazione di quelle che sorgono spontanee quando ci si chiude un dito in un cassetto...)


Certo, nulla a che vedere con gli elaborati dolci moderni a cui siamo abituati oggi, con le complicate architetture di impasti diversi (montati, frolla, choux e sfoglia, per esempio) e la possibilità di usare una combinazione pressoché sterminata di creme e farciture.
Ai tempi dei Romani, oltre alla scoperta dello zucchero come dolcificante e di quei nuovi ingredienti che solo molti secoli dopo hanno trovato posto in cucina, quella che mancava era proprio l'idea di fare dei "pani dolci".
E poi il gusto d'allora era assai diverso dal nostro.
Senza scomodare l'abusatissimo garum, sulle tavole antico romane dolce e salato andavano spesso a braccetto, come pure il dolce e l'agro. Prelibatezze del tempo erano, per esempio, gli arrosti di carne marinata in salse pungenti e accompagnati da frutta zuccherina (albicocche e uva, per esempio).
Il massimo dell'idea di dessert era accompagnare della ricotta con il miele.
Questa ricetta ha qualcosa di più, qualcosa di nuovo per lo standard di allora.
È il tentativo di far nascere qualcosa di diverso che non fosse buttato lì quasi per caso, ma aggiungendo un'elaborazione che prima d'allora, da quanto ne sappiamo, non s'era ancora mai vista.
Qualcosa che avesse una sua "presenza" e una sua individualità.
E bravo questo cuoco sconosciuto!
Che fosse siciliano?...

Detto (antico)romano del giorno 
Festina lente (Affrettati lentamente)
Augusto (via Svetonio)

Oggi ascoltiamo
Dead Can Dance - Saltarello

http://www.youtube.com/watch?v=AcmpBCXOgVI

NOTE
1) Strappona - Una donna dalle fattezze molto appariscenti e molto disinibita nei modi, che ama superare allegramente il confine tra indecenza e ridicolo senza porsi il minimo scrupolo. Arrivista e senza scrupoli, non esita a calpestare chi ha davanti pur di arrivare all'obiettivo che si è prefissa (sposare un milionario o arraffare l'ultimo golfino di cachemere in saldi sul banco d'un negozio alla moda).
Esempio archetipico di strappona: la perfida Alexis di Dallas, dal viso splendido di Joan Collins.
2) "Si vuole, ad esempio, che nutrisse le murene con la carne degli schiavi, e che si sia ucciso dopo aver dilapidato in banchetti un immenso patrimonio. In base a testimonianze indirette, comunque, si può affermare con certezza che Marco Gavio nacque intorno al 25 a.C. e morì suicida - verso la fine del regno di Tiberio - quando s'accorse che il suo patrimonio, ridotto a soli dieci milioni di sesterzi, non gli avrebbe più con­sentito il tenore di vita a cui s'era abituato" (Seneca, Consolatio Ad Helviam Matrem 10,8-10).
da Wiki

venerdì 14 febbraio 2014

Brioscine con patate

Fior de patata
volevi tanto fa l'innamorata
ma er giorno dopo già te n'eri annata

Quest'anno ho deciso: niente aglio a chili, niente sarcasmo, e neppure quel solito acidume da vecchia zitella acida.
Tanto san Valentino non lo sopportavo nemmeno quando stavo in coppia, figuriamoci adesso...
E poi di sòle, in tutti i sensi, nella vita se ne prendono a sufficienza da farci infine alzar le spalle. 
E alla fine cosa resta?
Che il grande amore della mia vita, quello per cui ogni mattina preparo una bella colazioncina come questa:

 (spremuta, kefir, caffè, dolce e... sì, lecitina di soia)

... è quello che mi ritrovo davanti ogni volta che incrocio per caso uno specchio. E non certo per pettinarmi, ahimé...
Si sa, nella vita ci si trova e ci si innamora.
E qualche volta, pure, ci si perde. Succede.
Solo che magari ogni volta ci si stanca sempre di più.
Fino a quando?

Sono soltanto i pezzi di quel che sono stato, 
e addosso mi piovono troppe lacrime amare;
sono lontano da casa, e ho affrontato tutto da solo, per troppo tempo.
È come se nessuno m’avesse detto mai 

cosa vuol dire davvero crescere e che lotta sarebbe stata,
e nel groviglio dell’anima cerco di capire dov’è che ho sbagliato.
Troppo amore uccide, se non decidi mai 

tra un amante e l’amore che ti lasci dietro;
vai a capofitto nel baratro senza nemmeno accorgertene: troppo amore uccide, ogni volta.
Sono soltanto l’ombra di quel che sono stato
e sembra che non vi sia nessuna via d’uscita,
una volta ti davo il sole, oggi non faccio altro che intristirti.
Ma se tu fossi al posto mio? Vedi che è impossibile scegliere?
È inutile trovarvi un senso, e comunque mi muova sarò perduto.
Troppo amore uccide, come pure non averne affatto;
ti prosciugherà le forze, ti farà implorare, strillare, e strisciare,
impazzirai dal dolore, vittima del tuo crimine: troppo amore uccide, ogni volta
Troppo amore uccide, e farà della tua vita una menzogna,

troppo amore uccide, e non capirai perché.
Daresti la vita, venderesti l’anima, ma ogni volta è così: troppo amore uccide, alla fine.

Qui ci vuole qualcosa di tenero, dolce, che non smentisce e non tradisce.
Il cibo, certo. Cos'altro?...

Brioscine con patate
600 g   farina
450 g   patate
150 ml latte o yogurt
3          uova
12 g     lievito di birra
100 g   burro
100 g   zucchero
scorza grattugiata di un limone e di mezza arancia
un pizzico di sale

Fase 1) - Lievitino
Lasciare a temperatura ambiente le uova e il burro.
Impastare velocemente mezzo bicchiere di latte con farina sufficiente a forare una pastella sostenuta, e  lasciare il tutto a lievitare al coperto per circa 30 minuti, o almeno fino al raddoppio.
Nel frattempo lessare le patate, quindi pelarle e schiacciarle.
Si possono anche mettere nello schiacciapatate con tutta la buccia ed evitare così la seccatura di stare a pelarle scottandosi le dita e bestemmiando san Valentino, al quale se ne sono ne ho già dette abbastanza.
Farle raffreddare bene prima di procede con la lavorazione.

Fase 2) - Impasto
Unire in una ciotola gli altri ingredienti al lievitino: le patate, le uova (una alla volta), lo zucchero, il latte (o lo yogurt, ma anche il kefir, se si ha a disposizione), quindi le zeste degli agrumi e, a mano a mano, la farina. Ultimo il burro a pezzetti.
Lavorare con forza fin quando l'impasto inizia a staccarsi dalle pareti del recipiente.
Rovesciare quindi sulla spianatoia e lavorare bene fino ad ottenere un impasto elastico ed omogeneo.
Evitare di aggiungere troppa farina in più: è preferibile lavorare l'impasto come quello del panettone, infarinandolo solo lo stretto necessario. Se ne guadagnerà in sofficità.
Mettere a lievitare nella ciotola, coperto e al riparo dalle correnti d'aria, per un circa paio d'ore, o almeno fino al raddoppio del volume.

Fase 3) - Lavorazione
Qui ci si può sbizzarrire: palle, trecce, ciambelle, e ogni cosa che passi per la mente.
L'unico accorgimento è: non strapazzare troppo l'impasto, non sfibrare la maglia glutinica stendendolo sottile col matterello o torcendolo troppo in forme astruse.
Per delle brioscine tonde si prende una palla di impasto e se ne portano il lembi verso il centro, come per ammassarla, aiutandosi con le mani unte.
Questa è la famosa "piega del secondo tipo", che serra l'impasto e spinge a forza il glutine.
Infatti la brioscia cresce a sfera che è una bellezza:

 
Ah, quella "del primo tipo" è la invece una piegatura "a libretto", molto usata in panificazione, mentre quella "del terzo tipo" è l'incontro con il glutine alieno, che provoca arrossamenti e stati confusionali.
Come l'amore, sì. 

Fase 4) - Cottura
Infornare in forno caldo, i nostri classici 180°, per circa 15 minuti.
Quindi sfornare le brioscine, e se si vogliono lucidare si possono spennellare con uno sciroppo di acqua e zucchero lasciato bollire qualche minuto (il tempo di per farlo addensare) e far asciugare un paio di minuti in forno.
Oppure, più semplicemente, passare un velo leggero di sciroppo d'acqua e zucchero a velo.


Per presentarle con qualcosa che ricordi la passione si può preparare una salsa ai lamponi.
Frullarne un cestino e unirlo a uno sciroppo d'acqua e zucchero fatto bollire pochi minuti, quel tanto che basta per sciogliere lo zucchero.
Far bollire il tutto per cinque minuti.

Oppure una crema all'alchermes, sulla falsariga del mirtiglione o della crema alla lavanda:
1         tuorlo
25 g    zucchero
10 g    farina
50 ml  alchermes
Lavorare il tuorlo con lo zucchero, aggiungere la farina e poi, a poco a poco, facendolo assorbire bene, il liquore. Cuocere a fuoco basso, meglio ancora a bagno maria, girando e rigirando sempre, sino a far addensare la crema.

Non è un amore?


 Inquietante, intendo...

Aforismi del giorno
Non sappiamo per quale motivo amiamo. L’amore non sa né leggere né scrivere, è ignorante. 

Ferzan Özpetek 

Nella vita non c’è niente di più importante dell’amore.
la madre di Ferzan 

Un uomo che non riesce a far volare un aquilone, non riesce a far felice una donna. 
la zia di Ferzan, Betul

Oggi ascoltiamo
Freddie Mercury - Too Much Love Will Kill You

http://www.youtube.com/watch?v=A6umJkuKNtc&feature=related

mercoledì 12 febbraio 2014

Grimilde - Torta Regina

Per me, da repubblicano e laico (o miscredente) quale sono, l'unica Regina di cui abbia riconosciuto l'autorità, è stata sempre e soltanto questa:

La parola "capo", le gerarchie e le strutture piramidali sono tutte cose che mi ripugnano.
Credo che ciò dipenda da un'inveterata difficoltà ad accettare le figure autoritarie che non siano accompagnate da una corrispondente autorevolezza. Figuriamoci il vederle accreditate per diritto divino in forma ereditaria...
Il rispetto e la fiducia sono beni prezioni, e occorre guadagnarseli; non vanno mica dati così, alla leggera e a scatola chiusa solo perché qualcuno indossa una corona e il manto di ermellino.
E poi per la maggior parte dei casi i regnanti delle varie epoche sono stati nella migliore delle ipotesi dei coraggiosi capipopolo, e nella peggiore solo dei predoni usurpatori. Le monarchie europee non nacquero mica per elezione diretta, con le presidenziali, ma dalle gesta di coraggiosi e spudorati banditi, con buona pace degli antichi Greci.
Qualche dubbio? Basta vedere quelli che abbiamo avuto fino al passato recente qui in Italia: un manipolo di assassini (1) dall'aspetto di ridicoli cialtroni, in perfetto stile italico.
A questi personaggi non avrei affidato nemmeno la promozione di una marca di sottaceti.
Come? È stato già fatto? Ops...
Altrove, i re e le regine sono i residuati di un mondo che galleggia tra le onde del Medioevo e le schiume dell'Operetta.
Personaggi d'altri tempi, pensionati di lusso in un mondo in cui i "poteri forti" sono ben altri.


Eppure sono ancora rispettati e visti come simbolo dell'identità nazionale, basta vedere con quale tenacia siano aggrappati gli inglesi alla casata degli Windsor.
La pora reggina Betta, con quell'aspetto di mite nonna benevola e la sua manina a paletta che ruota nel salutare il pubblico e i suoi sudditi, deve sudare sette camicie da notte per tenere a bada il resto della famiglia.
Quando si dice la genetica impazzita.

                         

A questi improponibili personaggi sono preferibili allora le regine di fantasia, quelle alle quali la forza del mito ha donato un'immortalità cui nessun essere umano potrebbe mai ambire.
Vuoi mettere la sora queen... con Grimilde?


Con quello sguardo gelido e cattivo da Joan Crawford, la vera Regina Cattiva del Cinema di quei tempi (2), e quel labbruccio sollevato in una smorfia di sdegno da vera indomabile stronza?
Ogni volta però Grimilde me la raffiguro con le fattezze bellissime di Lucia Poli, che la rappresentò in teatro in un monologo di Stefano Benni.

La sua era una terribile strega, una "maestra di magia nera"  - come giustamente riconsceva Brontolo, che a differenza di quei babbei dei suoi colleghi fu l'unico a capire di che pasta fosse fatta la Nostra... - ma superata dal rapido avanzare dei tempi e resa obsoleta da altre più sottili stregonerie.
Oggi il decotto di mandragora non serve più, basta essere feroci e soprattutto abili a nel saper manipolare conti bancari cifrati e a manovrare larghi consensi di massa.
Oggi lo specchio a cui chiedere quale sia la più bella del reame è lo schermo luminoso di un computer acceso sulla homepage di un qualsiasi motore di ricerca. Con una semplice googleata si può capire se ancora si è considerati e riconosciuti se non come i più belli del reame almeno come esseri esistenti.
La vera strega, la vera Regina Cattiva dei nostri tempi è lo specchio, la superficie su cui compare solo chi esiste.
Il resto non è degno di nota, non è interessante. Semplicemente, non c'è.
E allora ben venga Grimilde, con i suoi unguenti di rospo di palude e le sue mele avvelenate (che oggi basterebbe risciacquare nel Lambro o nel Tevere per rendere più velenose d'un boleto satana).
Ben venga la sua spocchia di chi "sa" comunque d'essere la più figa del reame, ma poi è così insicura da doverselo sentir dire da uno specchio, e parlante per giunta.
Una che comunque non accetta compromessi.
Perché? Come, perché! Se una è Reggina...


Grimilde - Torta Regina
È una torta margherita che si lavora come una montata al burro.
Un delizioso e soffice ibrido.
280 g farina
125 g burro o margarina
150 g zucchero
4       uova
1 bicchiere di latte
1 bustina di lievito
scorza di mezzo limone gratttugiata e poco un cucchiaio di succo.

- Io c'aggiungerei pure n'anguilla de palude, bella strizzata!
- Maestà, quale onore!
- Ma che me stai na cojonà? Guarda che te faccio rospo più de quello che sei già, eh?
- Non oserei mai! Lei per me è un mito.
- Se, se, pija per culo, te!
- Ma Maestà, che modi!
- Ahó, e allora? Nemmanco na spremutina de cicuta o du gocce de sugo de salamandra ce voi mette?
- Meglio di no, mia Reggina, meglio di no...

Lavorare a crema il burro e lo 3/4 dello zucchero fino ad ottenere un composto chiaro e spumoso, quindi si aggiungono i tuorli, uno alla volta. Unire al composto il latte, alternandolo alla farina miscelata con il lievito.
A parte si montano gli albumi a neve con lo zucchero rimanente e un cucchiaio di succo di limone e si incorporano all'impasto con movimenti dal basso verso l'alto, molto delicatamente.
Infornare a 180° per mezz'ora abbondante. Fa fede, come sempre, la prova stecchino.


- Che poi, posso dì la mia?
- Prego, prego, dica pure, Maestà. Non vorrei mai che se la contraddicessi lei mi trasformi in una biscia o in un tafano...
- Ma figurete... Che tafano e tafano! So tutte palle, tutte fandonie, tutta fuffa!
- Cioè?... Lei non è una strega malefica? È questo che vuole dire?
- Macché strega e strega, tu nonna sarà na strega!
- Quindi è stata calunniata per anni?
- E certo! Una chiede una coratella de cinghiale e appena ariva er garzone der macellaro tutti che dicheno, a bassa voce: "Hai visto? Ha fatto squartà Biancaneve!... Povera, dolce bambina!"
- E invece?
- Invece dolce bambina un par de palle!
- Maestà, la prego...
- Oh, famme dì! Quella era na serpe 'n seno, ecco che era! Cattiva, egoista e perfida! Je faccio: "Bella de Grimilde tua, vamme un pò a prenne du locuste per la pozzione de stasera.." e quella come me risponne? "Vacce da sola, vecchia baldr..."
- Maestà!
- È che m'hanno torto la voce da secoli e nun me regolo. Sò secoli che sò cattiva. Quella no, eh? Ma sapessi, sapessi! Una che scappa de casa e se ne va a dì in giro che è stata scacciata che d'è, seconno te?
- Che so... Na stronza? Così, tiro a indovinare...
- Cor botto! E poi sta storia dei nani, oh senti, nun ne posso più! È riuscita a corompe anche er sor Grimme!
- Dice i fratelli Grimm? Quelli che hanno trascritto la fiaba?
- Sì, loro. A Gujermo la stronzetta je diede ventimila talleri, mica uno! Tsé!
- Hai capito?... E allora lei dice che è scappata di casa per farsi i fatti suoi?
- Eccome! I fatti sua nun lo so, ma il resto s'è fatta de tutto e de più! Era una ninfomane senza freni, quella!
- Oddio, questa poi...
- Ah, perché te credi ancora alla storiella dei nani, vero? Posso usà er piccì tuo?
- Prego...
- Guarda, guarda qui: la versioni russa da'a fiaba che non è riuscita a fa cambià.
- "Storia della principessa morta e dei sette cavalieri"... È quella scritta da Puškin, vedo.
- Sì, sì, lui. Guarda va, fatte na curtura!

 Сказка о мертвой царевне и о семи богатыря

Nella favola dei Grimm, la Biancaneve tedesca era circondata da sette nani, e mica tanto avvenenti...

... in quella russa invece c'erano sette cavalieri! E tutti bonazzi...


- Ma... Ci sono sette cavalieri! E pure uno meglio dell'altro! Hai capito la paracula?
- Ahó! E che linguaggio è questo? Te trasformo in bacherozzo, eh?
- Mi personi Maestà, ma ero così sorpreso che...
- Eh, dillo a me quanno l'ho saputo! Che te pare che montavo tutta sta caciara pe 'n re bacucco?
- Cioè, lei?...
- Me li volevo fa tutti io li cavajeri, e nun lascianne manco n'andicchia a qu'a str...
- Maestà!

P.S. Si sa, tutte le Reggine sono in realtà cafoncelle e bricconcelle. E romanacce...

Aforisma inglese del giorno
I'm just a musical prostitute, my dear

Freddie Mercury

Oggi ascoltiamo
Queen - Breakthru

http://www.youtube.com/watch?v=CEjU9KVABao

NOTE
1) Le leggi razziali del '38 le firmò Re Sciaboletta (o Re Pippetto, come diciamo qui). Ah, e l'Isola di Cavallo dice ancora qualcosa a qualcuno?...
2) Dai cui lineamenti si sono ispirati appunto i disegnatori della Disney nel '38.

lunedì 10 febbraio 2014

Sciù!

Ogni volta che entrava nel locale di Monsieur Foqué tutti gli sguardi convergevano magneticamente su di lei ed era come se nella sala le voci e il chiacchiericcio si attenuassero al suo passaggio. Lei avanzava quasi facendo finta di non notare lo scompiglio provocato semplicemente dalla sua presenza, che attirava l’ammirazione degli uomini e l’invidia delle donne; era come un’apparizione luminosa, più delle lampade che diffondevano una luce allegra e sfacciata nella sala del caffè.
Per lei la parola “splendida” era senz’altro la più appropriata.
Madame Altière frequentava il Café de Surprises quasi ogni giorno, ci veniva a prendere un tè con qualche sua amica o, se la giornata era così grigia e cupa, una rassicurante cioccolata calda accompagnata da uno dei tanti dolci che Monsieur Foqué preparava con le sue mani.

Ogni volta che la vedeva entrare Armand temeva che lei potesse sentire il battito del suo cuore, e restava affacciato alla porta del laboratorio con gli occhi sgranati e la bocca aperta a bearsi di così tanta grazia.
Ma la signora non sembrava neppure notarlo, come del resto non sembrava notare nessun altro nel locale, e passandogli davanti Monsieur Foqué gli sussurrava un “Et allors?” che lo faceva sussultare e tornare in fretta e in furia alle sue occupazioni.

La signora si sedeva con grazia sulla poltroncina e con un sorriso lieve lieve ordinava al cameriere quello che desiderava.
Armand sapeva tutto di lei, almeno tutto quel che un aiuto pasticcere poteva sapere di una signora della - come si diceva allora  - buona borghesia.
Sapeva che era rimasta vedova giovanissima, durante una delle tante guerre franco germaniche, e sapeva che viveva da sola, e pare che frequentasse solo poche amiche fidate. Ma sapeva soprattutto che amava il tè senza zucchero né latte e né limone, che amava i pasticcini di pasta frolla tanto friabili da sciogliersi in bocca, e le paste in cui una mousse au chocolat carezzava la lingua e l’anima.
"Oggi è più bella del solito!..." pensava, perso in quell'incantesimo.


Certo, Armand era di parte ma in effetti oggi la massa dei suoi indomabili capelli rossi che sembrava avere vita propria risaltavano ancor di più sul collo del suo abito scuro.
Cosa non avrebbe fatto solo per poterle parlare…
Quei giorni, mentre pensava a lei, aveva quasi fatto bruciare le brioches e nei frollini invece si un pizzico aveva messo una manciata di sale rendendoli immangiabili.
M. Foqué lo redarguiva senza troppa convinzione e quando lo faceva tornare coi piedi per terra e lo vedeva sbrigarsi nelle faccende che aveva perso per strada, lo seguiva con un mezzo sorriso nascosto sotto i baffi da tricheco. Aveva un debole per quel giovane talentuoso, che gli ricordava se stesso di qualche decennio fa, e sapeva che oltre a un lavoratore instancabile era anche un valido pasticcere e avrebbe potuto farsi strada se solo non fosse stato così distratto e svagato.

“ Be’, caro Armand - gli disse un giorno - credo che per la prossima settimana potremmo cominciare a offrire ai nostri clienti qualcosa di nuovo, di diverso, che ne dici? Magari un dolce che nessuno ha fatto mai... Pensiamoci. Dobbiamo stare sempre un passo avanti per essere i migliori!”
L’orgoglio di Monsieur Foqué era smisurato ma era comprensibile: veniva da una famiglia modesta, dove col duro lavoro aveva saputo farsi valere e far notare le sue qualità. Non era un vero e proprio maestro pasticcere ma sapeva come gestire al meglio il locale che aveva messo su con tanta fatica e tanti sacrifici, un caffè che era diventato la meta delle persone più in vista della città. Avrebbe potuto fare il giardiniere, l’impresario di pompe funebri o l’avvocato con lo stesso successo, vista la serietà, l’impegno e un’abnegazione smisurate che sapeva mettere sempre in ogni cosa.
Sapeva che Armand conosceva bene il suo lavoro ma non solo: sapeva che il ragazzo era anche in grado di avere un’inventiva che tante persone non riescono ad avere, quel coraggio di osare oltre il già visto e la curiosità di provare cose nuove che non era poi così comune. Era il discrimine tra l’artigiano e l’artista, lo sapeva bene, solo che Armand era troppo preso dai suoi sentimenti per rendersene conto. Andava, per così dire, guidato…
“Pensa qualcosa che possa sorprendere i nostri clienti, qualcosa di mai assaggiato prima, qualcosa di leggero, friabile insieme a qualcosa di soffice e cremoso… Non so… tu che dici?… Pensa come sarebbe soddisfatta la bella M.me Altière se le venisse servito qualcosa fatto espressamente per lei…” - e gli lanciò un'occhiata divertita.
Per poco Armand non fece cadere a terra la bastardella in cui stava sciogliendo dl cioccolato, e se anche Monsieur Foqué non lo avrebbe di certo apostrofato con un “Ganache!” non ci avrebbe comunque fatto una bella figura.

Nei giorni che seguirono cominciò a sperimentare, con i quattro elementi della pasticceria: uova, farina, zucchero e grassi. Come un alchimista d’altri tempi passò ore nel cercare di escogitare qualcosa che fosse degno del palato della sua amata M.me Altière. Impastò, caramellò, montò a spuma, glassò; sembrava che ogni momento del suo tempo libero fosse impegnato in una spasmodica ricerca di quel particolare dolce che potesse far sorridere di piacere la sua bellissima dama. Era stremato, non riusciva a venirne a capo: o si riduceva a rielaborare la pasta frolla o dava nuovi accostamenti all’impasto della quatre-quarts, ma oltre non riusciva ad andare.
Monsieur Foqué cercava di seguirlo e di consigliarlo ma non essendo un maître pâtissier non riusciva ad andare oltre le vette della sua notevole esperienza. Qui ci voleva un colpo di genio.
Una notte si addormentò su una seggiola, con la testa sul banco da lavoro, sfinito e sognò…
Sognò la splendida signora che entrava nel locale, ma era come se fosse avvolta da una nuvola. Non una nuvola soffice ed eterea, no, ma una nube solida, croccante e friabile, una leggera e fragrante nube che spandeva nell’aria un delicato profumo di uova e farina.
La donna s’avvicinò al laboratorio, lo cercò con lo sguardo e, con un gesto che avvolgeva quella nube profumata, gli sorrise.
Armand si svegliò di soprassalto, con le guance in fiamme e gli occhi stralunati.
Uovo! Solo l’uovo poteva dare quella leggerezza!
Si mise al lavoro e fece diverse prove. Il caffè era chiuso da un pezzo e nessuno poteva stargli attorno mentre trafficava tra gli ingredienti e le attrezzature.
Non le piace il dolce, non subito… Ci vuole un guscio che racchiuda il "vero" dolce…
E pesò, mescolò, cosse e infornò finché, alle cinque del mattino, tirò fuori dal forno una teglia di piccole pepite, leggere come nuvole, gonfie e croccanti e delicatissime.
“Sembrano choux! – pensò Armand, ridacchiano tra sé con gli occhi gonfi di sonno – Ora devo solo pensare a come farcirli, questi cavolfiori!”
Stette un altro paio d’ore a trafficare tra creme, panna e ganache varie quando, riempite le pepite di semplice crema pasticcera, si sentì soddisfatto ed orgoglioso. E si addormentò in un angolo fino all’arrivo di Monsieur Foqué e degli altri colleghi.
Inutile dire che il maître fu non solo soddisfatto ma entusiasta del capolavoro di Armand e volle che tutti ne assaggiassero la fragranza e la bontà.

Quel pomeriggio, all’arrivo di M.me Altière lo stesso Monsieur Foqué in persona si premurò di accoglierla e di farla accomodare, dicendole che c’era una sorpresa per lei, solo per lei.
La signora era un po’ confusa ma comunque lusingata da tante attenzioni, e quando si sedette Monsieur Foqué le fece portare del tè, il suo preferito, e un piattino con tre splendide beignettes, delle frittelline - così le chiamò il Maître – con diverse farciture. Due erano delle rotonde nuvole di pasta mentre una era leggermente allungata e glassata con una sottile pennellata di cioccolato.
Appena M.me Altière assaggiò un beignet le guance le si arrossarono, gli occhi si socchiusero in un sorriso di piacere.
Non si sentiva così felice e appagata da quando… da quando? Nemmeno lei avrebbe saputo dirlo.
Sapeva solo che sarebbe stata così, in quello stato di perfetta beatitudine per sempre.
Non era solo qualcosa di nuovo e di inaspettato, ma qualcosa di più… d’imprevisto, come un innamoramento, un lampo, un éclair.
Cercando di riscuotersi a fatica da quella sensazione di languore e allo stesso tempo di frenesia sensuale che l’avvolgeva cercò con lo sguardo Monsieur Foqué, che era poco lontano e aveva registrato con visibile soddisfazione tutte le reazioni dell’ospite.
Quasi balbettando M.me Altière espresse l’apprezzamento per quel dolce che non aveva mai assaggiato prima, e volle fare i suoi complimenti al Maître il quale, schernedosi con un leggero sorriso, le disse che il merito non era il suo ma del pasticcere Armand, che dalla porta del laboratorio, lontano, oltre la sala, stava assistendo a tutta la scena.
La dama volle conoscere personalmente l’autore di un dolce così prelibato e quando si trovò davanti Armand, tutto lustro per l’occasione e rosso in viso da far pena, capì che in quella nuvola di pasta e crema non c’erano soltanto i  quattro elementi della pasticceria, ma anche un quinto, il più importante, quello senza il quale non si riesce a far combinare mai gli altri quattro: l’amore.
Non sappiamo cosa si dissero Armand e M.me Altière, d’altronde si sa: a volte un bigné è meglio di mille parole.
Sappiamo solo che da allora i due divennero molto, molto amici e sei mesi dopo decisero di sposarsi.
Monsieur Foqué, visto il successo che aveva avuto quel nuovo dolce, decise di far diventare socio il novello pasticcere, che divenne il più famoso di Francia.

Bigné, choux (1), éclair...
Parole diverse che alla fine indicano tutte la stessa cosa: una scorza friabile e croccante che racchiude un cuore di crema o di panna.
A parte la leggenda romanzata, la pasta choux ha una lunga tradizione culinaria, sia per uso dolce che salato.
Qui, manco a dirlo,ne faremo un uso dolce. Dolcissimo.

Sciù
Dose per 15-18 sciù (a seconda di quanto si facciano grandi)
150 g    farina
120 g    burro   
4          uova
250 ml  acqua
Un pizzico di sale.
Far bollire l'acqua con il burro e il sale, togliere dal fuoco e versare insieme tutta la farina, mescolando bene con la frusta.
Rimettere sul fuoco e mescolando cuocere il composto finché sfrigola e tende a staccarsi dalle pareti per appallottolarsi.
Togliere dal fuoco e far intiepidire; se avete una pentola col fondo spesso poggiatela in una scodella dove avrete messo un dito d'acqua.
Versare ora le uova, una ad una, mescolando con cura e facendone assorbire bene una prima di aggiungere la successiva.
Far riposare qualche minuto, versare a mucchietti con un cucchiaio, o anche con la saccapposcia (2) sulla teglia ricoperta con carta forno, distanziandoli di 3 cm ca.
Eccoli quasi pronti:

Cuocere a 180° per 25-30 minuti.
Devono asciugare perfettamente all'interno e spesso non è facile azzeccare il tempo di cottura.
Le prime volte consiglio di farne un po' di più e verificare col proprio forno quale sia l'esatta tempistica.
Farli raffreddare per bene.


Una teglia di sciù richiede pressappoco un litro scarso di crema, pasticcera e/o d'altro tipo.


Dopo due anni che non ne facevo ho deciso di strafare.
Ho preparato della crema pasticcera soda, nella dose da 250 ml di latte:

Crema pasticcera soda
250 ml latte
40 g     farina
75 g     zucchero
1          uovo intero
Stessa procedura della pasticcera solita: mescolare uova e zucchero, aggiungere la farina, stemperare col latte e far addensare a fuoco dolce.
Ho diviso in due questa crema e in una metà ho mescolato 50 g di cioccolato fondente, facendolo sciogliere per bene, quindi ho messo le creme a raffreddare in due recipienti coperti da pellicola per alimenti applicata a contatto della superficie della crema, per evitare così il formarsi della fastidiosa pellicina. Con questa dose di crema ho farcito 8 sciù: 4 bianchi e 4 al cioccolato.
Si può usare la saccapposcia con il beccuccio sottile o anche la siringa da pasticceria oppure, più brutalmente, tagliando la calotta dello sciù e riempiendolo a suon di cucchiaini colmi.


Per gli altri ho preparato qualcosa di diverso. Una cosa che mi ricordasse l'infanzia e cosa nuova.
La prima è una...

Diplomatica allo zabaione
Sì, lo so, da noi viene detta Chantilly, ma propriamente una crema mescolata a panna montata andrebbe chiamata Diplomatica. Che farci? Incombe sempre lo spirito della Maestrina dalla Penna Rossa...
Si procede come per il mirtiglione, con le seguenti dosi:
1         tuorlo
30 g    zucchero
15 g    farina
50 ml  marsala dolce
Lavorare il tuorlo con lo zucchero, aggiungere la farina e poi, a poco a poco, facendolo assorbire bene, il liquore. Cuocere a fuoco basso, meglio ancora a bagno maria, girando e rigirando sempre, sino a far addensare la crema, che potrà essere usata solo una volta fredda.
In 125 ml di panna da montare ho versato la crema ormai diaccia - come direbbe Mastro Artusi - e ho montato a spuma omogenea la Diplomatica.

Con questa dose ho farcito altri 4 sciù, avendo l'accortezza di mettere in ognuno dei bigné un'amarena sciroppata Fabbri (3).
Senza è solo metà del piacere.

Quand'era domenica mio padre tornava da lavoro - sì, l'edicola era aperta anche di domenica, magari anche solo per mezza giornata - portando un consueto pacchettino legato col filo di rafia.
Sapevo già cosa contenesse: un diplomatico per mamma, una pasta al liquore per lui, diversi sciù alla crema e al cioccolato e lui: lo sciù allo Zabaione Chatilly. Con annessa amarena, ovvio.


Per altri 4 sciù ho preparato una Diplomatica con un altro tipo di liquore: alla lavanda.
Stesse dosi e stesso procedimento di quella allo zabaione, solo che al posto del marsala ho messo 40 ml di liquore alla lavanda.
Si può preparare lasciando in infusione un paio di giorni quattro cucchiai di fiori essiccati di lavanda in 200 ml di alcool e poi preparare uno sciroppo di 200 ml d'acqua e pari peso di zucchero.
Verrà un liquore molto, molto profumato, da usare quindi con molta attenzione.
Anche in questa ho messo l'amarena sciroppata Fabbri, che ci sta... un amore, appunto.


Per la copertura si possono decorare solo con una spolverata di zucchero a velo, oppure preparare una glassa all'acqua.
Si mescola dello zucchero a velo con poca acqua, versata poca per volta e mescolando fino ad ottenere un composto denso, che potrà essere spalmato con un cucchiaino sulla superficie dello sciù.
Questo tipo di glassa ci mette qualche ora per asciugare, mentre se invece dell'acqua si utilizza dell'albume, in un'oretta si avrà già la glassa asciutta.
Queste glasse possono essere profumate con aromi e colorare a piacere.
Se invece dell'acqua si usano un paio di cucchiai di Alchermes si otterrà una bella glassa rosa al sapor di cocciniglia. Ottima per gli sciù alla lavanda.
Quelli ripieni al cioccolato possono essere spalmati con poco cioccolato fondente fuso, che asciugandosi diventerà croccante, oppure con una glassa all'acqua (o all'albume) in cui sia stato sciolto dello zucchero a velo mescolato a un cucchiaino di cacao .


Far asciugare la glassa e poi... chiss’è visto s’è visto!!!

Aforisma francese del giorno
Le passioni sono i soli oratori che persuadono sempre. Sono come un'arte della natura le cui regole sono infallibili; il più semplice degli uomini che nutra una passione è più convincente del più eloquente che ne sia privo. 

François de La Rochefoucauld

Oggi ascoltiamo
Florent Pagny - Châtelet les Halles

http://www.youtube.com/watch?v=i3gVto7j3LI

NOTE
1) A Napoli, dove la chanteuse è una sciantosa, il gateau diventa gattó, il sartou si fa sartó, lo choux è, appunto, lo sciù...
2) Italianizziamo anche questa no? Del resto abbiamo già il paltó (magari di color bordó... )
3) Non amo scrivere il mome preciso dei prodotti, mi sempra una piaggeria bella e buona e una pubblicità non retribuita. Ma quanno ce vo ce vo! Nessun altro prodotto del genere gli sta alla pari. L'amarena sciroppata è l'amarena Fabbri, non si scappa, le altre sono solo pallide e scialbe imitazioni. Non so se dipenda dalla varietà d'amarena o dalla particolare lavorazione. So solo che hanno un sapore indescrivibile: dolce e aspro al punto giusto. In una parola: sublimi.