domenica 29 giugno 2014

Petti di Pollock

Sfogliamo insieme un libro d’arte.
Sì, succede anche questo. Qualche volta fa anche bene.
Qualche volta.


Ma lo sento. Come l’effervescenza del gas dal fondo d’un bicchiere, come il titillamento dell’herpes nel bordo del labbro, come il brontolio sommesso e minaccioso d’un vulcano.
“Adesso lo dice, adesso lo dice, adesso...”
- Certo che io questa vostra Arte Moderna non la capisco proprio!...
- Ambo!
- Che?
- Niente, Leppagorre, dicevo tra me e me... Cos’è che non capisci? E, soprattutto cosa c’è da capire?
- Mah, non so... Qui il titolo dice “Autunno”, ma io non vedo foglie che sia una. Non vedo l’autunno nemmeno a pagarlo oro...
- Ma non lo devi vedere così bell’e pronto, come in fotografia. Lo devi evocare dentro di te.
Cerco di essere conciliante. Magari qualcosa ne verrà.
Secondo brivido. Come la prima folata fredda che raggela, come la scintilla bruciante che cova nella cenere, come lo starnuto che annuncia una settimana di naso colante.
“Adesso lo dice, adesso lo dice, adesso...”
- Eh, guarda qua: che ci vuole a fare una cosa del genere? Sono capace anche io!”
- Terno!
- Che?
- Niente, Leppagorre, pensavo a una cosa in sospeso dentro di me... Ma l’arte moderna non gioca sulla capacità, ma sull’originalità.
Cerco di essere comprensibile come posso. Magari qualcosa ne verrà.
- Eh, ma che ci vuole a prendere una tela e gettarci sopra il colore? Niente! Hai capito che opera d’arte!
- Questo qui, caro, l’ha fatto prima di tutti. Ed è il suo gesto ad essere un’opera d’arte. Quelli che lo faranno dopo di lui avranno perso un treno fondamentale. È così che funziona.
- Allora basta buttare giù quattro cose a caso, così ed essere il primo a farlo per essere un artista!
- Precisamente. Tu sarai quello che ha avuto “quell’idea”. Non altri.
- E allora è come se adesso per cena buttassimo quattro cose sul piatto e lo chiamassimo “ricetta”.
- Sì, anche se fosse un fracandò co la cipolla, se fosse originale lo potremmo chiamare così.
- E allora che aspetti? Andiamo, no?
Ci casco sempre. Ecco dove voleva andare a parare, il maledetto.

- E quale artista vorresti portare in cucina?
- Quello lì, quello dei barattoli legati a un filo con il buco sotto!...
- Ah, Pollock. Bene. Quindi servono i colori...
- Appunto, andiamo a comprare le salse! Maionese, senape, glassa all’aceto balsamico! Presto, prima che mi passi l’ispirazione!
- La fame invece mai, eh?


Petti di Pollock
(per due)
400 g     petto di pollo intero*
qualche pomodoro secco
un pugno d'olive tipo taggiasche
100        g yogurt (mezzo vasetto abbondante)
uno spicchio piccolo d'aglio, mezzo se grande
poca menta, anche secca
poca grappa, o altro liquore similare (anche vodka, semmai)
latte, olio, burro e sale q.b.
salse a piacere (vedi sotto)
* O anche di tacchino, in questo caso si dovrà scegliere di comporre il piatto del famoso pittore suprematista russo Takhinov

Tagliare la carne a fette non troppo sottili, quindi a strisce, e indi a dadoni
Immergerli nel latte e lasciarli ad ammorbidirsi per almeno un'oretta.
Far rinvenire i pomodori secchi in acqua.
Snocciolare le olive e tagliarle a metà.
Scolare i dadoni di pollo, infarinarli e farli rosolare in poco olio e una noce di burro.
Unire i pomodori secchi sminuzzati e le olive.
Sfumare con poca grappa, sempre saltando i dadini di pollo così da farli cuocere in modo uniforme.
Disporli su un piatto da portata: sarà la nostra tela.
Armarsi di tutte le salse disponibili:
- Maionese;
- Senape;
- Ketchup, oppure, se non lo si ama troppo, aggiungere un cucchiaino di concentrato di pomodoro a un paio di cucchiai di maionese;
- Salsa allo yogurt, a cui vanno aggiunti l'aglio tritato e un pizzico di menta in polvere;
- Glassa all'aceto balsamico

- Smettila!
- Non ci riesco, è più forte di me! La sento scivolare nella lingua e la sento dolce, agra e umami!
- Ma tu non hai una gola, cialtrone!
- Ma tu sì! Ancora un po' ti prego. Poca poca...
 Resisto alla tentazione di docciarmi con del mistrà e procedo alla composizione.
- Potremmo fare come Pollock e legare il barattolo della maionese ad un filo e lasciala colare a piacimento...
- Scordatelo! La cucina mica me la pulisci tu, poi. E quanta maionese vorresti usare?
- Be', con l'arte non bisogna mai essere tirchi, no?

Vanno bene delle siringhe, dei sacchettini bucati in fondo, dei recipienti a pompetta.
Qualunque cosa faccia cadere dall'alto il colore, pardon le salse, formando un ghirigoro impazzito.
E in fretta, perché il pollo si fredda...


- Mhhh... che buono!...
- Ci credo, c'è mezzo litro di salse a scelta!
- Sarà il sapore dell'arte?
- Che peccato...
- Cosa?
- Non potrerti chiudere in un barattolo con la scritta "Merd d'artiste".
- Ah, saresti capace di farlo?
- No, purtroppo, l'ha già fatto Manzoni...

Detto romano del giorno
La catena nun ha fatto mai bon cane.


Oggi ascoltiamo
Buffalo Springfield - For What It's Worth

https://www.youtube.com/watch?v=DIoKr9VDg3A

giovedì 26 giugno 2014

Coratella (semmai coi carciofi)

A Roma, quella papalina che per secoli ha formato la fisionomia e il carattere della città, la suddivisione sociale tra nobiltà, benestanti e plebe era rispecchiata chiaramente e candidamente anche nella cucina.
Ai primi due erano riservati i tagli nobili della carne, i due quarti anteriori e quelli posteriori, mentre il popolino si sfamava con il quinto quarto: trippa, rognoni (i reni della bestia), cuore, fegato, milza, animelle (ossia pancreas, timo e ghiandole salivari), cervello, lingua e cotenne.
Ovvero con gli scarti della macellazione.
Ma, ironia della sorte - o giustizia della storia, fate un po' voi - la cucina romana non è il cosciotto d'abbacchio arrosto o l'arista con le patate, ma proprio quella preparata con il saporito quinto quarto.


Coratella, pajata, trippa e coda alla vaccinara, tanto per dire, sono diventati così l'emblema dell'ingegnosità del popolino, della capacità di rendere gustoso quello che veniva ritenuto uno scarto, un rifiuto.

- Che dici, non sembro appetitoso come un manzo?
- Ma taci, cialtrone! E vedi di non perdere pelo, che i fai i coriandoli per casa!
- Eh, ironia, ironia, pussa via...


La coratella classica si prepara con le interiora dell'abbacchio (l'agnello da latte), ma anche con quelle di maiale o di vitello, e nonostante tutte le apparenze non è un piatto difficile da preparare.
Bisogna solo aver l'accortezza di procedere a una cottura graduale dei diversi ingredienti.
Le varie parti (il polmone, il cuore, il fegato e i rognoni) vanno infatti tagliati a dadini e tenuti separati tra di loro, dato che hanno diversa consistenza, e quindi diversi tempi di cottura.

Certo, è più un piatto del periodo pasquale, quando si usa macellare gli agnelli e i carciofi fanno ancora bella mostra al mercato.
L'amaro del carciofo infatti si sposa alla perfezione con la dolcezza delle interiora, non c'è che dire.
Ma siamo in estate, e se non si ha un congelatore come il mio, che sembra di venti litri ma sfocia tranquillo nella quinta dimensione e che contiene verdure di ogni periodo dell'anno - anche estinte - si può comunque preparare la coratella a sé. Nessuno se ne avrà a male...

Nel caso la si voglia carciofare, Mondare (in questo caso capare) quattro carciofi, togliendo le foglie più coriacee, tagliando la punte aguzze del fiore e immergendoli in acqua acidulata con limone per non farli ossidare.
In una padella capiente si fa soffriggere un trito di cipolla in un paio di cucchiai d'olio evo, si aggiungono gli spicchi dei carciofi, tagliati sottili e una spruzzata di vino bianco secco.
Cuocere una ventina di minuti, salando a metà cottura.
Se dovessero asciugarsi aggiungere qualche cucchiaio d'acqua e limone in cui sono stati immersi.

Passiamo alla carne.
In un'altra padella far soffriggere mezza cipolla media con l'olio e quindi la carne.
Prima il polmone, che andrà cotto per una decina di minuti a fuoco vivo, bagnandolo, se occorre, con del brodo o dell'acqua bollente.
C'è anche chi aggiunge una foglia d'alloro e di salvia, per dare un ulteriore aroma.
Quindi il cuore e i rognoni, una spruzzata di vino bianco, e un pizzico di sale.
Dopo altri dieci minuti circa (possono essere 10 come 15, a seconda della morbidezza della carne e della grandezza del taglio) s'aggiunge il fegato, e dopo 3 o 4 minuti i carciofi stufati.
Si lascia andare per altri 5 minuti circa, aggiustando di sale e di pepe, mescolando bene per amalgamare il tutto.


Pa’a coratella, come er minestrone,
nun poi buttà le cose tutt’a 'n botto.
Pe fà sto bendiddio ce vò attenzione
ch’ogni ‘ngrediente chiede d’esse cotto

er tempo che ce vole, e ner soffritto
metti er pormone, poi core e fegato 
nell’ordine, come ‘o vedi scritto
fino a faje avé ‘n colore d’ebano

e pari morbidezza e consistenza.
Così nell’acqua butti la carota
co la patata, e nun ce vò ‘na scienza,
se sa, je serve tempo, è cosa nota,

pe falle ‘ntenerì, e ner frattempo
te poi capà con carma la verdura
più tenerella pe’r seconno tempo,
così nessuna cosa resta dura.

La coratella è ‘n po’ come ‘na folla
ch’ariempie ‘na piazza de colore
e de caciara, e quasi fà spavento
ma ner particolare se fa bella:
ch’ognuno cià ‘n temperamento
e ‘n ticchio suo rinchiuso dentro ar core.

venerdì 20 giugno 2014

A spasso con Gogol'

Un bel giorno, così, senza una ragione apparente, o forse per chissà quale oscura ripicca, un naso si staccò dalla faccia che l'aveva contenuto per anni e cominciò a vagabondare per la città vestito di tutto punto, e per giunta comportandosi come il suo vecchio proprietario non si sarebbe mai sognato di fare.
Ed era talmente divertente, sfacciato e accattivante che ad un certo punto questi si sentì quasi surclassato e finanche soppiantato dalla sua appendice ribelle...


Akakj Akakevič, un mite e insignificante impiegatuccio, aveva messo tutta l'anima in quel cappotto. Era stato capace di aspettare un tempo interminabile e aveva fatto sacrifici incommensurabili pur di averlo.
Quel cappotto era il suo riscatto, la sua patente di onorabilità e di rispettabilità, anzi, era un certificato di degna esistenza. 
O forse anche di più: era un attestato d'esistenza tout-court..

Grazie, Nikolaj Vasilevič.
Gogol', ovviamente.


Sul piedistallo della statua che lo scultore georgiano Zurab Tsereteli ha forgiato nel 2003 c'è scritto: “Posso scrivere della Russia solo stando a Roma. Solo da lì essa mi si erge dinanzi in tutta la sua interezza, in tutta la sua vastità”.
E in una lettera scriveva: “Che cosa posso dirti dell’Italia? E’ bellissima. Ti colpisce non a prima vista ma dopo. Soltanto guardandola di più e sempre di più, vedi e senti il suo fascino. Nel cielo e nelle nuvole c’è una certa luce argentea. Il sole pare che abbracci l’orizzonte. E le notti? Sono bellissime, le stelle sembrano pianeti. L’aria è’ così pura…E le donne sono more, brillanti, con enormi occhi neri…”
A Roma aveva conosciuto Belli e ne aveva apprezzato lo spirito satirico così affine al suo, ma meno tragicamente slavo, più disincantato.
"Ho trovato un vero poeta romano, un poeta popolare che scrive sonetti in dialetto trasteverino. Dei sonetti che, susseguendosi, formano un poema". Così aveva detto al poeta e critico francese Charles Augustin de Sainte-Beuve, durante la traversata da Civitavecchia a Marsiglia.
Pare di vederlo, con i suoi capelli da paggetto mentre esce dalla casa di via Sistina - che allora si chiamava via Felice, dal nome di Sisto V,  Felice Peretti - e arriva verso Trinità dei Monti, si appoggia al  parapetto e guarda lontano, dalla scalinata all'orizzonte, dove si stende Roma in tutta la sua bellezza.
Non è vero che "i manoscritti non bruciano", bruciano eccome.
Come la seconda parte delle Anime morte, persa per sempre dopo che la commissione della censura non ne aveva permesso la pubblicazione, visto che "l'anima è immortale e perciò non possono esistere anime morte"...
Nikolaj Vasilevič impazzì anche per questo, come rischiò di fare Bulgakov, e Zamjatin, e...


Villa Borghese prima di andare a lavoro fa sempre bene all'anima.

giovedì 19 giugno 2014

Placenta semodiale

Chiamarla "torta" sarebbe davvero troppo, ma in effetti è la prima antenata delle moderne torte, anche se in realtà era una sorta di focaccia, che in greco antico veniva chiamata plakoys,  che in latino divenne poi placenta.


È quindi un piatto dolce di origine greca, importato probabilmente dai commercianti etruschi, e che veniva offerto agli ospiti ellenici in occasione di banchetti.
E visto che ce piace tanto de chiacchierà ma anche di provare cose vecchie e nuove, ogni tanto un saltino nel passato non fa male. Anzi.
Fa bene capire innanzitutto di quali elementi fosse composto il gusto alimentare di una cultura così lontana, e di quali cibi e combinazioni si facesse uso in un tempo in cui non esistevano alimenti che oggi sono così usuali nelle nostre cucine (lo zucchero, tanto per dirne una).
E, ancora, fa capire come allora il senso del dolce era riservato al miele e ai fichi, e che bastava davvero poco per far festa, visto che il piatto forte era, e rimase per tantissimo tempo, la carne.
Altro che cake design...

Questa ricetta viene direttamente dal libro LXXVI De agricultura di Marcus Porcius Cato, alias Catone.
Certo, qui non parla il gaudente Apicio, ma un politico, un moralizzatore, un austero fustigatore di costumi a suo vedere troppo disinvolti.
Uno che s'oppose sempre all'ellenizzazione della cultura romana, esaltando la semplice sobrietà e la severità dei costumi latini contro la mollezza degli usi greci.
Ed era così avverso alla cultura greca da sprezzare anche la categoria dei medici, che in gran parte venivano dall'Ellade.
Diciamo pure che fu fortunato a superare senza troppi acciacchi gli ottant'anni...
Era uno che al Senato soleva ripetere Ceterum censeo Carthaginem esse delendam, ovvero "... e comunque penso che Cartagine debba essere distrutta".
Hai voglia a ripetergli che si stava discutendo di fognature o d'acquedotti. Macché, quando uno è fissato... Era un duro, mica mammole.
Un roscio malpelo, avrebbe detto er poro Verga, che non ne faceva passare una. Un rompicoglioni, insomma.
E comunque, con l'intento di lodare la salubrità e la semplicità della vita rustica nostrale diede mano a un'opera che testimonia più d'ogni altra le condizioni di vita della cultura latina del II secolo prima dell'Era Volgare.
Ed è grazie alla sua smania di incensare la buona vita contadina (1) che ci sono arrivate alcune ricette dell'epoca.
Ovvio che, in stile con l'austera semplicità del Censore, non dobbiamo aspettarci qualcosa di troppo lussurioso, e che quindi di fronte a questa ricetta ci si chiuda in un deluso "Embè?"
Ma la curiosità non deve mai venir meno, anche per le cose che a prima vista sembrano poco appetibili o poco interessanti.
E non parlo di cucina, eh?

Catone riporta così la ricetta della Placenta:

LXXVI.
Placentam sic facito. Farinae siligineae L. II, unde solum facias, in tracta farinae L. IIII et alicae primae L. II. Alicam in aquam infundito. Ubi bene mollis erit, in mortarium purum indito siccatoque bene. Deinde manibus depsito. Ubi bene subactum erit, farinae L. IIII paulatim addito. Id utrumque tracta facito. In qualo, ubi arescant, conponito. Ubi arebunt, conponito puriter. Cum facies singula tracta, ubi depsueris, panno oleo uncto tangito et circumtergeto ungitoque. Ubi tracta erunt, focum, ubi coquas, calfacito bene et testum. Postea farinae L. II conspargito condepsitoque. Inde facito solum tenue. Casei ovilli P: XIIII ne acidum et bene recens in aquam indito. Ibi macerato, aquam ter mutato. Inde eximito siccatoque bene paulatim manibus, siccum bene in mortarium inponito. Ubi omne caseum bene siccaveris, in mortarium purum manibus condepsito conminuitoque quam maxime. Deinde cribrum farinarium purum sumito caseumque per cribrum facito transeat in mortarium. Postea indito mellis boni P. IIII S. Id una bene conmisceto cum caseo. Postea in tabula pura, quae pateat P. I, ibi balteum ponito, folia laurea uncta supponito, placentam fingito. Tracta singula in totum solum primum ponito, deinde de mortario tracta linito, tracta addito singulatim, item linito usque adeo, donec omne caseum cum melle abusus eris. In summum tracta singula indito, postea solum contrahito ornatoque focum + de ve primo + temperatoque, tunc placentam inponito, testo caldo operito, pruna insuper et circum operito. Aperito, dum inspicias, bis aut ter. Ubi cocta erit, eximito et melle unguito. Haec erit placenta semodialis.

Fai così la placenta. Due libbre (650 g. ca.) di farina di grano per fare la crosta (solum); per fare le tratte (2) 4 libbre (kg. 1, 300) di farina e 2 libbre (650 g.) di farina di grano duro (alica prima).
Versa la farina di grano duro nell’acqua; quando si sarà ammollata, mettila in un mortaio pulito e falla asciugare bene. Poi impastala con le mani. Quando si sarà impastata bene, aggiungi un po’ per volta tutta la farina. Con entrambe le farine fai le tratte. Mettile su un graticcio per farle asciugare. Quando saranno asciutte modellale bene. Quando fai le tratte una ad una, dopo averle modellate, ungile tutt’intorno con un panno impregnato d’olio. Quando le tratte sono pronte, riscalda il focolare dove le cuocerai e il forno portatile. Quindi bagna le 2 libbre di farina di grano duro e impastale, fanne una sfoglia sottile. Metti in acqua 14 libbre (kg. 4,600) di formaggio fresco di pecora (ricotta) che non sia acido e sia stato appena fatto; maceralo e cambia l’acqua tre volte. Quindi scolalo, e fallo asciugare per bene un po’ per volta strizzandolo con le mani, e quando sarà ben asciutto mettilo in un mortaio. Quando avrai asciugato bene tutto il formaggio, lavoralo con le mani in un mortaio pulito e sminuzzalo il più possibile. Quindi prendi un setaccio per farina pulito e fai passare il formaggio per il setaccio e riversalo nel mortaio. Dopo di che prendi 4,5 libbre (1,5 kg) di miele di buona qualità e mescolalo bene con il formaggio. Dopo di che prendi una tavoletta pulita larga 1 piede (ca. 30 cm), mettici una fascia intorno, sistema sul fondo delle foglie d’alloro unte d’olio e modella la placenta. Per prima metti sul fondo la sfoglia e le singole tratte, poi dal mortaio spalma il composto di miele e formaggio sulle tratte, e aggiungile una ad una spalmandole finché non avrai finito tutto il formaggio mielato.
Per ultime metti le tratte, poi chiudi la sfoglia e decora, regola il fuoco e mettici la placenta sopra , coprila con il fornetto ben caldo, mettici intorno e sopra la brace. Fai attenzione che cuocia bene e lentamente, e apri due o tre volte per controllare. Quando sarà cotta, estraila e ungila con miele.
Questa è la placenta semodiale.

Così la ripresenta Eugenia Salza Prina Ricotti (3)

Placenta
Ingredienti per 12 persone:
250 gr. di farina
Acqua q.b.
1 pizzico di sale   
5 sfoglie cotte al forno 
300 gr. di ricotta
250 gr. di miele
Fare una sfoglia sottile con farina ed acqua. Sciogliere la ricotta e mischiarla con il miele.
Coprire una piastra per il forno con le foglie d'alloro unte d'olio, stenderci sopra la sfoglia di farina ed acqua facendola penzolare e mettere sopra, al centro, una delle sfoglie di semola.
Coprire con uno strato di ricotta e continuare alternando sfoglie e ripieno fino ad esaurimento.
Ripiegare la sfoglia esterna e saldarla al centro. Ungere il dolce e metterlo in forno a 160 gradi per almeno mezz'ora. Sfornarlo quando sarà ben dorato e bagnarlo abbondantemente con il miele.

Volendo le foglie di semola possono essere confezionate: in questo caso bisogna impastare acqua e semola di grano duro, dividere tutto in 5 parti che si stenderanno come lasagne, facendole prima seccare e poi, unte d'olio, passate al forno.
Più semplice è munirsi di sfoglie di pane sardo.

Potevo forse esimermi dal farla?
Toh, ho giusto del pane carasau in dispensa. Che combinazione...
E il miele? Quello non manca mai.


A conti fatti l'"Embè?" è di rigore come l'abito scuro in una serata di gala.
Ma prevedibile, come un qualsiasi censore...

Detto latino del giorno
Exigua his tribuenda fides, qui multa loquuntur

Bisogna prestare poca fede a quelli che parlano molto.
Catone (manco a dirlo...)

Oggi ascoltiamo
Lisa Gerrard - Sacrifice

https://www.youtube.com/watch?v=j6DZsEQ82lE

NOTE
1) Nella prefazione di De agricoltura scriveva infatti: Virum bonum quom laudabant, ita laudabant: bonum agricolam bonumque colonum; amplissime laudari existimabatur qui ita laudabatur. Mercatorem autem strenuum studiosumque rei quaerendae existimo, verum, ut supra dixi, periculosum et calamitosum. At ex agricolis et viri fortissimi et milites strenuissimi gignuntur, maximeque pius quaestus stabilissimusque consequitur minimeque invidiosus, minimeque male cogitantes sunt qui in eo studio occupati sunt. 
Ovvero:
"E l'uomo che [i nostri antenati] lodavano, lo chiamavano buon agricoltore e buon colono; e chi così veniva lodato stimava di aver ottenuto una lode grandissima. Ora, reputo sì coraggioso e solerte nel guadagnare chi si dedica alla mercatura, ma, come dicevo sopra, soggetto a pericoli e sciagure. Dagli agricoltori, invece, nascono uomini fortissimi e soldati valorosissimi, e il loro guadagno è giusto e al riparo da ogni insicurezza, nulla ha di odioso; e coloro che si dedicano all'agricoltura non sono tratti a cattivi pensieri".
Un "puritanesimo" da Ventennio unito al mito ante litteram del Candido Frantoio...
2) La tracta è una sfoglia sottile fatta con acqua e farina di farro o grano. Può essere agevolmente sostituita con pane carasau.
3) Nel suo "Ricette della cucina romana di Pompei e come eseguirle", Ed. L’Erma di Bretschneider, Roma.

giovedì 12 giugno 2014

Deliziose alla panna

Ognuno di noi ha la sua madeleinette.
Può essere una pietanza semplice o una preparazione fatta con amore; qualcosa di caldo da mordicchiare con cautela o di freddo, da leccare con un brivido di piacere; qualcosa di dolce o di salato, morbido e cedevole o croccante e tenace al morso.
Eppure ne basta un boccone, o anche solo assaporarne l'aroma, per precipitare vertiginosamente come Alice nel proprio Wonderland, verso un'età lontana, dorata, felice. O, quantomeno, serena. 
Un'età persa per sempre.
L'età delle persone care accanto, delle carezze amorose e dei sorrisi dati solo per il fatto d'esistere; delle feste con i compagni, con le risa e il divertimento per piccole, sciocche, cose; dei pomeriggi pigri passati sotto al sole o in una frenetica e serissima attività ludica tra i confini d'un parco, in un cortilie o in un salotto.
Perché la maddalenina è questo: un biglietto andata e (purtroppo) ritorno À la recherche du temps perdu, verso l'universo perduto della propria infanzia.
Er poro Proust aveva proprio le madeleinette, quei friabili biscottini a forma di conchiglia che sbocconcellati con un tè diedero la stura alla rievocazione d'una vita sepolta sotto lo strato d'una banale e conformistica quotidianità.
"Portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della maddalena. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicessitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita…non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale.
Come dargli torto?
Basta davvero poco, a volte.
Per esempio, a me l'odore dei vecchi negozietti di paese che vendevano di tutto, quella mistura di sentore di formaggi stagionati, detersivi e salnitro delle vecchie mura, mi dà le vertigini e mi riporta ai primi anni di vita, quando s'andava a trovare "zia Maria", che viveva da zitella nel paese materno.
Oppure - e questa è davvero la maddalenina della "mia" infanzia - ecco la domenica afosa e assolata, o cupa e piovosa; ecco il rumore della macchina di mio padre, una Simca che da bianca era stata ridipinta in un improbabile verde prato, unico al mondo; ecco l'ascensore che arriva al piano e quella voce a novanta dB, che mi dava gioia e paura; ecco il pacchettino incartato con il filo di rafia pieno delle poche paste, le pastarelle, da godersi dopo pranzo e nel pomeriggio, assieme davanti alla tv, e a partite finite, ovvio; ecco il bigné al caffè, la pasta da uomo adulto - la sua - e la Diplomatica per la mamma, con il pandispagna spruzzato di vezzoso alchermes, chiuso tra due strati di pasta sfoglia e sommerso da un strato mortale e dolcissimo di zucchero al velo.
E poi c'era lei, della quale non sapevo neppure che avesse un nome: per me a quei tempi era solo "la rotella".
Vai a capire poi che aveva una sua storia e una sua lontana tradizione come tutte le altre paste?
Solo col tempo ho capito che quei due dischi di pasta frolla in cui riposava una crema bianca, pannosa e zuccherina, si chiama "Deliziosa". E napoletana, per giunta.
Anche se poi ognuno, nelle varie zone d'Italia, le confezionava a proprio gusto.
Oltre alla crema pannosa e dolcissima ho poi scoperto che c'è chi utilizza la crema pasticcera, magari anche al cioccolato, oppure la famigerata crema al burro, che con l'avanzare dell'età diventa più impervia di una salita a piedi per Vipiteno.
E sulla superficie basta un velo di zucchero al velo, oppure un pennellata di cioccolato fondente.
Intorno, comune a tutte le varietà e variazioni c'è la granella di nocciole. Sì, anche di pistacchi, dicono.
Insomma ognuno ha la "sua" Deliziosa, quella della propria infanzia, quella del ditino sul vetro della pasticceria per chiamarla a sé o invitarla nel "convivio delle paste".
Certo, magari per alcuni la propria maddalenina è stata un supplì, un filetto di baccalà pastellato o anche un fiore di zucchina con alice e mozzarella.
Ma sempre maddalenina è.


Per la frolla-frolla
250 g     farina 00
50 g       fecola
150 g     zucchero al velo
150 g     burro freddo di frigo
1 cucchiaino di bicarbonato
Stesso procedimento della frolla simplex: sabbiatura del burro con le farine e impasto iperveloce con lo zucchero al velo.
Riposino in frigo per la canonica mezz'ora.
Stesura della pasta ad un'altezza di circa mezzo centimetro, magari tra due fogli di carta da forno, così da non aggiungere ulteriore farina e sbilanciare l'impasto.
Taglio della pasta in dischi di 5-7 cm e cottura in forno per circa 10-15 minuti.
Devono appena colorirsi.

Per il ripieno
E qui ognuno può scegliere quello che più gli aggrada:
> Crema pasticcera, magari soda per evitare penose defaillances della farcitura:
500 ml   latte
50 g       farina
100 g     zucchero
1           uovo intero
2           tuorli
liquore a piacere, o anche 50 g di cioccolato fondente per una metà al cioccolato.
Lavorare l'uovo e i tuorli con lo zucchero.
Unire la farina e stemperare con il latte, quindi cuocere a fuoco moderato.
Quando inizierà a rassodarsi continuare la cottura per circa 5 min, sempre mescolando.
Magari anche abbassando la fiamma: è meglio.
> Crema al burro
    240 g   burro
    140 g   zucchero al velo.
Lavorare a crema il burro con la frusta elettrica, aggiungere a cucchiai lo zucchero al velo e lavorare fino ad ottenere una crema sostenuta ma soffice.
> Crema per la Torta Delice, che abbiamo usato per la prima volta qui.
250 ml panna
1 cucchiaio di buon miele
2 fogli di colla di pesce
Ammolliamo la colla di pesce in acqua fredda, la sciogliamo poi in due cucchiai di panna scaldata e, fatto freddare il tutto, lo si unisce alla panna in fase di montaggio.
> Crema di ricotta e mascarpone, come riportato qui.
250 g  ricotta
100 g  mascarpone
100 g  zucchero a velo
2 cucchiai di liquore a piacere
3 cucchiai colmi di scaglie di cioccolato bianco (opzionali, secondo me)
Lasciare asciugare la ricotta: porla in un telo, quindi in uno scolapasta. Sotto poniamo una scodella per raccogliere il liquido e sopra un peso (un batticarne, per esempio).
Il tutto va in frigo per una notte.
Lavorare a crema la ricotta insieme allo zucchero a velo.
Unite il mascarpone, quindi aggiungete il liquore e, se si preferisce, il cioccolato tritato finissimo.

Qualsiasi farcitura si scelga, con un cucchiaio o una saccapposcia farcire generosamente un biscotto di frolla, chiudere con un secondo biscotto e livellare il bordo con un coltello. 

Per la decorazione
Zucchero al velo a go-go, oppure 30 g di cioccolato fondente fuso e spennellato sul disco superiore.
Granella di nocciole, tritata non troppo finemente, lungo il bordo. Imprescindibile.
Lasciare riposare qualche ora in frigo, magari tutta la notte.
Il giorno dopo saranno al meglio del loro delizioso splendore.


Comunque la si prepari verrà sempre bona, anche se non è la madeleinette della propria infanzia,anche se non rievoca niente di quel magico periodo in cui credevamo in ogni cosa che ci venisse detta e raccontata.
Ma un morso ad occhi chiusi a quella frolla e quella crema se non ridà l'infanzia, la nostra perduta e amata, quasi quasi la ricrea.
Potere del piacere.

Detto romano del giorno
Chi tte fa ppiù de mamma, o tte finge o tt'inganna.

Oggi ascoltiamo

Alphaville - Forever Young
https://www.youtube.com/watch?v=IGAVwQAmAHs
e dopo trent'anni la magia rimane la stessa:
https://www.youtube.com/watch?v=e30L1DqxH6g

martedì 10 giugno 2014

Pomodori ripieni di riso

- Rossi!
- Verdi!
- Rossiii!
- Verdiii!
- Ho detto che li voglio rossi, ripieni di riso e con tante patate intorno!
- Invece ce li faremo verdi, col tonno, olio, aceto e basilico!
- Mangiatela te quella sbobba da ospedale per lungodegenti!
Di fronte ai capricci d'un bambino, solitamente, una madre fa valere la sua autorità genitoriale: si strattona il piccino e gli si impone un "si fa così e basta!"
E a meno che la povera animuccia materna sia intrisa di tremebondo lassismo e di timor panico per ogni possibile diniego, tenderà a trascinare il piccolo demone verso reparti del mercato meno compromettenti.
Un minimo di durezza serve, si sa: sono i piccoli "no" che aiutano a crescere.
Fermo restando che la fumosità dev'essere bandita e che una promessa, anche e soprattutto a un bambino, è SEMPRE una promessa.
Ma quando ci si ritrova con un gattodemone che al massimo del (mio) delirio supera i due metri e dieci - dai quali ti guarda anche con divertito sfottò - e che pesa almeno almeno trecento chili, per non parlare poi del fatto che ha ormai superato i 623 anni, quali argomenti addurre per superare l'impasse e seguitare serenamente indenni le compere alimentari?
- Chiamo l'esorcista!
- Mi spiace - Fa lui con una smorfia da beone d'osteria - ma non credo agli esorcismi...
- Ti lascio qui!
- Davvero? Splendido! Così assaggio tutto: gelato alla vaniglia con sgombri sottolio, peperoncini ripieni e frollini al cacao, banane ancora asprigne e miele di castagno!...
- Ti spruzzo con una soluzione di anice stellato!
- Ma dài, dici dici e poi ti scordi sempre di portartela appresso. Uh, ma cosa c'è lì? Le bacche di goji! Corri!
Insomma, ogni tentativo di arginare il ciclone Leppagorre è destinato a una penosa sconfitta fatta di cedimenti, di compromessi e di rivalse (sue, ovvio).
- Allora ne prendiamo quattro rossi. Guardami, dico quattro, eh? E tre verdi, così per un paio di giorni siamo a posto.
- Va be', va be'... Il riso ce l'hai, sì?
- Sì, ce l'ho il riso. Come se non lo sapessi: vivi per metà del tempo nelle mie viscere e l'altra metà nella dispensa: dovresti conoscere ormai ogni mollica che vi conservo dentro.
- Devo dire che di molliche non me ho visto l'ombra ma, piuttosto, c'è del riso soffisto che rischia davvero grosso con la scadenza...
Ottuso come un triangolo, furbo come una faina, ingenuo come un micetto appena nato.
Come si fa a non volergli bene, in fondo?
In fondo, ho detto.

Non s'è mai capito se questo sia un primo piatto, un piatto unico, un secondo di verdura o che.
C'è chi lo usa indifferentemente in tutte e tre le accezioni senza troppi drammi, anche se poi il dubbio resta.
Comunque, è una delle poche cose che riescono bene anche per chi ha il bollino nero in cucina.
Più difficile è preparare un sugo ben fatto o una anche solo una frittata, tanto per dire.
E se ci riusciva mia madre, che aveva un repertorio manesco (nel senso che si contavano sulle dita delle mani le cose che sapesse cucinare davvero bene) allora posso dire senza tema di smentita che un piatto  semplice, della cucina popolare, gustosissimo.
E che portato in tavola, come le lasagne, fa sempre festa.

Pomodori ripieni di riso
Per ogni persona occorrono:
2    pomodori rossi tondi da insalata
2    cucchiai abbondanti di riso
2    patate, belle grosse
Uno spicchio d’aglio, del basilico, olio sale e pepe q.b.   
Tagliare la calotta superiore dei pomodori e tenerla da parte.
Scavarli quindi delicatamente con un cucchiaio per togliere la polpa, il sugo e i semi, che verserete in una ciotola e passerete al setaccio.
Aggiungere il riso, crudo, l’aglio tritato e le foglie di basilico a pezzettini.
Salare, pepare e aggiungere un cucchiaio d’olio.
Con questo condimento bello liquido riempire i pomodori svuotati e disposti in una teglia, rimettere al loro posto le calottine e disporre, attorno ai pomodori, le patate pelate e tagliate a spicchi grossi, e senza salarle. Bagnarle con un poco del sugo dei pomodori per insaporirle.
Cuocere a forno già caldo per almeno 40 minuti, girando solo un paio di volte le patate.

 
- Ma qui manca qualcosa... Leppagorre, hai visto per caso...
- Di' un po': non sembro forse un pittore franzoso?
- No, sembri il solito rincoglionito italiano.
- Dài, un Matisse, un Monet, un Picasso.
- Che era spagnolo, tra l'altro. Piuttosto Leppomodoro... Ma dammi qua.
- Uffa vuoi sempre tarpare le mie ali!
- E capirai, dove s'è mai visto un demone gattesco con le ali?
- Cattivo!
- Ingordo!

E così via, per tutto il resto della giornata... ad libitum.

Detto romano del giorno
Pazienza, vita mia, si paghi pena, annerà pe quanno hai fatto vita bona.

Oggi ascoltiamo
Tiro Mancino - Due destini

venerdì 6 giugno 2014

Chatwin di banane

La pasta Chatwin è una scorza soffice come una brioche ma abbastanza resistente da sopportare lo strapazzo d'una passeggiata al centro storico, una scampagnata fuori porta, o anche il tragitto di un'ora e passa (ci mettete meno? beati voi...) fino al posto di lavoro.
È una pasta ibrida, meticcia, un po' brioche e un po' brisée, poco burrosa e così neutra da sposarsi con qualsiasi ingrediente.
E poi si mangia calda, tiepida o anche a temperatura ambiente.
Insomma, la scorza ideale, secondo me, da utilizzare per una torta salata. Solo?...
Ci mancherebbe! E che non vogliamo provarla in versione dolce?


Inizialmente volevo preparare una sorta di strudel e chiamarlo Strufolone di Chatwin.
Poi, ricordando la prodigalità di sé che aveva er poro Bruce, propenso com'era alla promiscuità (come si dice qui: "A chi lo dava e a chi lo prometteva"...), e all'esito infausto che ne venne, mi sembrava di sfiorare appena appena (ma solo un pelino, eh?) il cattivo gusto.
E anche di prendermi troppa libertà con quel che Chatwin è stato come scrittore e uomo di cultura.
Ma soprattutto come viaggiatore.
Che non è prendere lo zaino e andare in un luogo lontano per vedere l'"Altro", restando sempre e comunque nei propri panni - In our own shoes, avrebbe detto lui.
"Vedere" non basta, quasi mai.
La comprensione  dell'Altro che viene dall'osservazione, dallo studio acritico degli elementi che compongono la sua cultura - come s'è sempre fatto con il nostro metodo scientifico positivista - non va molto lontano.
Compone un elenco "alla Linneo maniera" e lascia fuori gran parte dell'esperienza vera, quella empatica.
Solo immergendosi in quegli elementi fino a sentirli propri, a viverli come fossero stati tramandati nella propria cultura allarga il confine dell'appartenenza. Propria e dell'Altro.
Solo pensando come pensa l'Altro, partecipando ai suoi gesti quotidiani, si capisce davvero, e a più livelli, una banale e sconcertante verità: che l'Umanità è una, in tante forme che si sono differenziate per le condizioni ambientali ma anche per la tendenza tutta umana alla diversificazione - la nascita dei gerghi e dei dialetti ne è un esempio immediato.
Siamo tanti e diversi, come le cellule di un corpo, ma siamo lo stesso meraviglioso (o terribile, come avrebbero detto i Greci) corpo.
E Chatwin ci ha aiutato a capirlo meglio, coi propri occhi e le sue parole.

Chatwin di banane

Per la pasta:
250 g    farina
12 g      lievito di birra
70 g      burro morbido
100 g    zucchero
100 ml  latte (o anche yogurt)
1           uovo
1 pizzico di sale e la buccia grattugiata di mezzo limone
Si mettono in una terrina la farina, il sale, il lievito sciolto nel latte tiepido, l'uovo e il burro.
Il composto dev'essere morbido e appena consistente.
Lavorare il tutto appena il tempo per amalgamare bene gli ingredienti.
Non aggiungere altra farina, ma spolverarsi appena appena le mani quel tanto che serve per lavorare senza troppa difficoltà l'impasto.
Si pone quindi a riposo per un'ora circa, il tempo di far lievitare la pasta.

Il ripieno è invece dato da:
5 banane medie (o 4 grandi) non troppo mature
30 g mandorle tritare grossolanamente*
40 g uvetta (opzionale)
2 cucchiai di zucchero, un pizzico di cannella (pochissimo, un'ombra)
pangrattato q.b.
1/2 cucchiaino di zenzero fresco grattugiato
Succo di un limone e la scorza grattugiata di mezzo.
* Le mandorle servono solo a dare un po' di croccantezza e a "drenare" l'eventuale sugo di cottura delle banane. Volendo si possono anche omettere a favore di qualche biscotto ai cereali sbriciolato.

Tagliare a rondelle non troppo sottili le banane (mezzo centimetro può andare) e disporle in una ciotola, con un cucchiaio di zucchero e irrorarle con il succo di limone.
Quando la pasta avrà lievitato per il doppio del volume prenderne tre quarti, stenderla sulla base e i bordi di una teglia imburrata, quindi versare sul fondo un cucchiaio di zucchero e uno di pangrattato mescolati assieme, quindi una spolverata di mandorle grattugiate.
Scolare le banane dal succo, unire la scorza di limone e lo zenzero grattugiati e mescolare.
Cospargerle con un cucchiaio o due di pangrattato, mescolare velocemente e disporre metà delle rondelle sul fondo della torta.
Distribuire sullo strato l'uvetta (se la si vuole utilizzare, non è fondamentale), un velo di mandorle e comporre un altro strato di rondelle di banane, sul quale andrà messa la rimanente quantità di mandorle.
Con la pasta restante formare un disco con cui chiuderete la torta.
Unite i bordi, attorcigliandoli un poco, e sulla superficie formare delle figurine ritagliando la pasta eccedente.
Cuocere a 180° per mezz'ora, quaranta minuti, fino a doratura della superficie della torta.
Si può inumidire con del latte la superficie della Chatwin e, dieci minuti prima del fine cottura spolverare con zucchero semolato.


Oppure dipingervi sulla superficie con dell'orzo solubile sciolto in pochissima acqua.
È un'idea divertente, e ci si può davvero sbizzarrire. Che vo'o dico a fà?


Con un pennellino si possono formare dei motivi decorativi per accompagnare le figure che avremo disposto in superficie.
Magari, in onore di Bruce, qualcuno degli "animali-spiriti": il serpente, la tartaruga, o anche qualcosa che ricordi gli elementi della cultura degli aborigeni australiani.


Unire alla decorazione uvetta ammollata e, se serve, anche qualche pinolo.
Unica cosa che occorre sapere è che a metà cottura è meglio coprire con un foglio di alluminio la superficie della torta, per non far scurire troppo le parti non disegnate.



Se la gita, la passeggiata o l'escursione verso un qualsiasi luogo (che non sia un non-luogo) prevede una Chatwin di verdure (funghi, broccolo romanesco, zucchine e tonno, o anche broccoletti siciliani), la si può accompagnare anche da questo pratico e gustoso dessert.
Un dolce da viaggiatori.
Chissà, magari Brice se la sarebbe anche portata nel bush australiano e l'avrebbe fatta assaggiare agli amici del posto che gli avevano parlato delle Vie dei Canti.
Di certo noi l'avremmo aspettato a casa, offrendogliene una generosa fetta assieme a una calda tazza di tè.
Inglese.

Aforisma del giorno
Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre ma nell'avere nuovi occhi

Marcel Proust

Oggi ascoltiamo
Pink Floyd - The great gig in the sky

https://www.youtube.com/watch?v=cVBCE3gaNxc