sabato 1 marzo 2014

Lauræ crustrum

- Glaphyra, presto, la signora vuole vederti!
- Vedere me, Zoi? Ma che dici?
- Sì, proprio così! Ti manda a cercare, e sbrigati, su! Chissà cos'avrà da chiederti! Io torno in cucina, ma poi mi racconti, eh?
Zoi era sempre stata un'impicciona e Glaphyra non amava perdere il suo tempo in chiacchiere con lei, e poi aveva così tante cose da fare, in cucina.
Quando entrò nella stanza così riccamente decorata quasi le mancò il respiro. Sapeva che nella sua terra c'erano palazzi con affreschi e dipinti preziosi, dove il colore dell'azzurro del cielo, l'oro del sole e il rosso del sangue creavano figure fantasmagoriche, ma lei non li aveva mai visti.
Era stata presa dal suo villaggio assieme ai fratelli e alle sorelle e venduta come schiava in una terra di cui allora non sapeva nemmeno il nome.
- Prendetela, signori! È giovane, forte, e sa cucinare come nessun'altra qui! - Così ne aveva decantato le doti il mercante quel giorno, mentre veniva esposta al pubblico, ma non avrebbe mai saputo cosa stessero davvero dicendo di lei. Imparò la lingua dei romani molto dopo, vivendo in quella domus.
La signora le stava di fronte, seria, e la guardava con attenzione.
Non era mai stata dura con lei, l'aveva sempre rispettata come facente parte della famiglia e, a suo modo, le voleva bene.
- È perché cucini divinamente - Diceva quella serpe di Zoi. E forse, chissà, può anche darsi che avesse ragione lei.
Era invidiata dalle amiche della sua domina per le sue capacità, e quando in città si diffondeva la notizia che i Papirii celebrassero una qualche ricorrenza con un banchetto le reazioni erano duplici e nette: c'era chi non vedeva l'ora di partecipare a un evento che sarebbe stato di sicuro memorabile, e chi invece bolliva di rabbia per esserne stato escluso.
Marcia Papiria era una bella donna, anche se non più giovane - Aveva già superato i trent'anni - ma la cura che poneva nell’acconciarsi gli abiti e i capelli la facevano sembrare quasi la statua di Afrodite che Glaphyra aveva visto un giorno, da lontano, tanto tempo fa.
- Glaphyra, cara - Le fece la padrona che adesso aveva addolcito lo sguardo. - Vieni, devo parlarti. E da sola. - E si avviò verso la stanza interna.
La paura di Glaphyra crebbe come un guizzo nel cuore. Le sembrò che il sangue le si fermasse per un istante nel cuore e che il sole avesse smesso di percorrere la volta celeste.
- Non aver paura, e seguimi. Non voglio che orecchie indiscrete, ascoltino quello che ho da dirti. Non temere, su, vieni.
- Arrivo, domina. - E la seguì per la stanza attigua, dove erano sole e nessuno poteva ascoltare quello che avesse da dirle la padrona.
- Ascolta, Glaphyra, sai che in famiglia ti stimiamo tutti per i tuoi servizi. Sei un'artista, nel tuo lavoro. Precisa, diligente...
Ma?... - Pensò con timore crescente Glaphyra. Sapeva che discorsi di quel genere erano sempre il preludio di qualcosa di sgradito. L’avvisaglia di una possibile decisione spiacevole della sua padrona la fece quasi tremare. Non sapeva dove guardare e si sentiva persa.
- Per questo - Continuò la domina - voglio darti un incarico speciale. Molto speciale. E che potrà essere speciale anche per te.
- Per me, signora? - Ebbe l'ardire di esclamare Glaphyra, colta così di sorpresa.
- È così. Ricordi il banchetto dove vennero come ospiti i Claudii, e col quale ci hai reso molto onore?
In effetti quel banchetto era ancora ricordato, dopo due anni, come l’emblema della cena perfetta: c'erano pesci di fiume e di mare cotti nel testo o sulle braci roventi, cinghiali e pavoni ripieni di ogni leccornia, frutta e formaggi dei possedimenti vicini, e poi dolci di noci e miele tra i più deliziosi del mondo.
- Ricordo, domina, e sono felice di avervi dato soddisfazione. – Disse Glaphyra abbassando lo sguardo. Era segretamente fiera del suo lavoro ma pur sempre una schiava.
- Non avevo dubbi, sai? Ti conosco da quando eri piccina così, e sei sempre stata una serva seria e diligente. Te ne sono grata, Glaphyra.
Quelle parole impreviste, fuori da ogni protocollo, erano come vino inebriante e le facevano girare la testa. Cosa le avrebbe chiesto la padrona?


- Vedi, la settimana prossima il dominus verrà investito della carica di magistrato, e per noi questa sarà un'occasione molto speciale. Ma potrebbe esserlo anche per te - Le fece Marcia Papiria con un leggero sorriso. Possibile che la sua buona padrona godesse nel vederla sulle spine? Glaphyra quasi tremava dall'emozione.
- Sai che ho due figli grandi, Livius e Cornelius, e che da tempo ho perso la mia unica figlia femmina, che ho amato molto... - La padrona non riusciva mai neppure a pronunciare il nome di Lidia, morta di malattia qualche anno prima, quand'era ancora una bambina.
- E quindi - continuò Marcia Papiria - la sera del banchetto sarà una sera molto particolare. Voglio che tutti i miei ospiti che ancora non ti conoscono assaggino le tue specialità, soprattutto quelle carni squisite che tu sola sai cucinare in quella maniera. Bene, vengo subito al dunque. La cena sarà l'occasione per te di darmi un'ulteriore prova della tua bravura. Ne ho parlato col dominus, ieri, e con lui ho stretto un accordo.
Un accordo tra i suoi padroni? Qualcosa circa la svolgimento della cena, di sicuro. Che potesse riguardare proprio lei, Glaphyra non sapeva proprio immaginarselo.
- Devi creare un dolce che sia la magnificenza della cena, qualcosa che nessuno ha ancora mai assaggiato. Qualcosa che ci darà ulteriore gloria e rispetto tra le famiglie romane.
Ecco cos'era, sospirò Glaphyra. La richiesta di qualcosa di speciale. Meno male che non era nulla di cui preoccuparsi.
- Ma col dominus abbiamo anche parlato di te. E molto. Mi ha detto che finalmente è disposto a esaudire la richiesta che ho tenuto in serbo finora... Quella di farti diventare libera, Glaphyra. Una cittadina romana a tutti gli effetti. E ricca anche, come nemmeno puoi immaginare.
A quelle parole la ragazza quasi svenne dall'emozione. Cosa le stava dicendo mai la sua padrona? Lei, proprio lei, una donna libera? Non era possibile!
- Vedi, se avessi potuto t’avrei reso libera già da tempo, ed è da tanto che ci sto pensando, ma tu sai che il dominus è un tipo molto rigido. Non è cattivo, lo sai, ma il suo difetto è che molto… formale. Ma questa è l'occasione che ho sempre aspettato per proporgli la tua liberazione come se fosse una speciale gratifica. Voglio che tu diventi una donna libera, Glaphyra. Una cittadina degna e rispettata. E so che puoi farcela.
- Io... libera... - Glaphyra nemmeno aveva mai avuto l'ardire di unire tra loro quelle due parole, le sembrava una blasfemia troppo grave anche solo pensarla.
- È così, cara Glaphyra, e il padrone ha accondisceso la mia richiesta. Se sarai all'altezza del tuo compito, come lo sei stata già tutte le altre volte, del resto, avrai la possibilità di avere la tua libertà.
E qui la padrona, nel segreto della sua stanza, le sorrise e le toccò le braccia come in un leggero abbraccio.
- Vai, figlia mia, e mettiti all'opera. Io ho fiducia in te, e so che ce la farai. Sii fiduciosa anche tu. Cos'è, piccola... Non sei felice?
- Felice... - In realtà Glaphyra era inchiodata dalla sorpresa e non riusciva neppure a respirare.
- Devo andare ora. Che Fortuna ti sia benevola, e tutti gli dèi ti guidino.
Le carezzò una guancia e, voltandosi in fretta come per nascondere un'emozione troppo forte, s’allontanò verso le sue stanze.


Glaphyra restò basita ancora non riuscendo a realizzare cosa le stesse accadendo ma poi, pian piano, come se emergesse dalle acque, veniva investita da mille nuovi pensieri, mille paure, mille speranze e mille propositi con cui rendere indimenticabile la cena del suo signore.
I giorni seguenti furono un tormento. Le sue aiutanti eseguivano le sue indicazioni a puntino ma pareva sempre che mancasse qualcosa e il fatto che non potesse confidarsi con nessuna di loro, tantomeno con Zoi, la faceva sentire sulle spine per ogni minima questione.
E cosa poteva mai inventare di nuovo, lei? Qualcosa che nessuno a Roma avesse mai mangiato... Sì, ma cosa?
Fece diverse prove ma nessuna la soddisfaceva. Erano le solite cose, in forma diversa ma con  la stessa sostanza. Iniziava a sudar freddo, col timore di non potercela fare.
Quel giorno, il pastore che le portò il formaggio fresco appena preparato la vide rossa in viso, come se avesse pianto tutta la notte o non avesse dormito in preda a chissà quale incubo.
Il vecchio, con cui era solita scambiare qualche parola la guardò con tenerezza e le disse: - Stai serena, Glaphyra, qualunque cosa ti affligge, tutto si risolverà. E se hai dei dubbi su qualcosa che ti tormenta chiedi aiuto ai tuoi avi.
Con un sorriso stentato Glaphyra prese il formaggio e lo ringraziò.
Quella sera, stanca della lunga giornata, accese una candela e bruciò qualche foglia di un'erba che conosceva solo lei, e di cui nessuno lì sapeva l'utilizzo.
L'aria si fece profumata di fieno e fiori, e chiudendo gli occhi Glaphyra spense la candela e s'assopì.
Sognò la dea Artemide, vestita d'argento lunare, con la faretra a tracolla e l’arco impugnato saldamente dalla mano destra.
La dea le sorrideva, aveva gli occhi profondi come la notte e sembrava volerle dire qualcosa ma lei non riusciva a sentire il suono della sua voce.
Poi vide degli schiavi che portavano offerte e libagioni alla dea.
C'erano fiori, candele e cibi profumati. Uno di questi la sorprese. Era una sorta di placenta (1), ma era sormontata da candele accese, tante piccole luminosissime candele che parevano stelle del firmamento.
L'aveva quasi dimenticato, ma nella sua terra di un tempo si usava omaggiare Artemide con un dolce su cui erano state accese delle candele. (2)
Che bizzarria, diceva nel sogno a se stessa, ma che bellezza, anche! Il mattino dopo, ristorata da quel sogno magnificente, si mise al lavoro pensando a come potesse rendere reale la torta che aveva visto in sogno.


Cos'aveva lì? La farina, le uova, l'olio, e il miele, naturalmente.
Mescolò, lavorò. Mise l’impasto nel testo sotto le braci roventi e scottandosi disse anche qualche parola poco riguardosa verso gli dèi, che Artemide fece evidentemente finta di non sentire, perché dopo qualche ora quello che sembrava un miracolo avvenne.
L'idea era semplice in sé: impastare tutto quel che aveva a disposizione e mettere sul dolce del formaggio fresco addolcito con il miele e, quale atto propiziatorio, profumato con delle foglie di lauro, simbolo di gloria e della vittoria.
Il formaggio, col miele era delizioso, ma formava una crema troppo morbida.
E la pasta invece era troppo dura. Non poteva presentare una focaccia immangiabile. E poi non sapeva di nulla, mentre ricordava che da piccola assaggiò una focaccia al miele che…
Si mise al lavoro provando e riprovando. E sbagliando, anche. Lei, la migliore cuoca di Roma.
- Ma dove ho la testa? ma, certo, che scema! Le uova!... - Pensava tra sé, come, muovendosi come se stesse sulle braci roventi.
 
La sera del banchetto fu memorabile.
Fu una cena grandiosa, e le aspettative degli ospiti non vennero affatto deluse.
Gli ospiti rimasero a bocca aperta, meravigliati da tutte le cose buone che Glaphyra aveva saputo preparare.
C’erano cibi, cucinati e insaporiti nei modi più insoliti, e vini speziati provenienti da tutte le parti dell’impero.
La fama della cuoca era ormai diffusa ovunque, e non c'era famiglia a Roma che non la indicasse ad esempio di persona capace, retta e diligente. Eppure era sempre capace di stupire i commensali con le sue preparazioni.
Verso la fine del pasto, difatti, quando gli animi erano già accesi dal vino e i tutti s’erano saziati già a dovere, fece il suo ingresso la sua torta, e il mormorio di sorpresa sembrò il mugghiare d'un mare in tempesta.
Era un disco di pasta, tonda e dorata come una luna all’orizzonte, e ricoperta di crema di formaggio.
Ma la cosa che sorprese tutti fu la sua entrata in scena.
Era sormontata da tante piccole candeline che illuminavano la penombra della sala e che parevano un astro catturato dal cielo e portato in gloria lì, tra i mortali.
Ma questo era niente. La vera sorpresa fu quando il padrone di casa spense le candele con un soffio solo e vennero dati agli ospiti le fette dei dolce. Nulla che fosse mai stato confezionato a Roma poteva stargli alla pari: la placenta cui tutti erano abituati al confronto era un piatto rozzo, qualcosa di cui vergognarsi d'aver mangiato ed apprezzato finora.
Questo era qualcosa di diverso, lo vedevano tutti, e ognuno lanciava esclamazioni di meraviglia, consapevole di assistere a qualcosa finora mai accaduta.
Non solo il dolce ebbe il successo che meritava, ma la cuoca, che aveva seguito le reazioni entusiaste riportate dai camerieri, venne convocata dal padrone, che voleva ringraziarla pubblicamente davanti a tutti i suoi ospiti di riguardo.
Quando il dominus l’ebbe davanti a sé le consegnò una pergamena e fece portare da un servitore una cassa che sua moglie aveva già da tempo riempito di gioielli e monete d’oro.
Ma quello che il padrone le stava per dare era il tesoro più grande, al quale pochi, tra gli schiavi, potevano ambire.
- Da questo giorno – Le disse il dominus - non sei più Glaphyra, la nostra schiava, e non sei più di nostra proprietà. Sei una donna libera. E me ne sono tesrimoni i presenti. Ma non solo. Se vorrai sarai nostra figlia, e ti chiamerai Laura, l’onore della nostra casa.
Glaphyra divenne così libera e ricca, e accettò con gioia di diventare figlia adottiva dei Papirii.
Ma non dimenticò mai d'essere stata per anni una semplice schiava come tante, e cercò di comportarsi sempre in modo saggio e avveduto. Diversi schiavi, quelli che i suoi mezzi le permisero di comprare, ottennero da lei la libertà, e molti scelsero di viverle accanto per gratitudine e per l’alta stima che serbavano di lei.
Quando voleva continuò a preparare dei piatti deliziosi, ma stavolta solo per diletto, e solo per rendere felice la sua nuova famiglia. Le piaceva stupire con la sua cucina e amava far sbocciare un sorriso inatteso sulle labbra delle persone a cui voleva bene.
Quel dolce perse il suo nome, è vero, come molte altre cose d’allora che si sono perse nel passato, ma la gloria del suo artefice resterà comunque scritto per sempre nel libro del tempo.


Lauræ crustrum
Come ricreare qualcosa che fosse plausibile ai tempi degli antichi romani?
Già la lista degli ingredienti era più scarna di quella di oggi, e molte preparazioni erano allora sconosciute.
Unico dolcificante era il miele, e preparare un dolce col burro era ancora al di là delle conoscenze d'allora.
C'era però il buon olio d'oliva, o lo strutto. Come inizio non c'è male. D'altra parte ancor oggi si usa questo sistema.
Perché non provare quindi a preparare una pasta frolla ante-litteram?


Pasta frolla all'olio e al miele
300 g farina
50 g   olio d'oliva
50 g   miele
1        uovo
un pizzico di sale
(e  con la macchina del tempo, se si vuole, prelevarne anche uno di lievito)

L'olio dovrà essere quello dal sapore non troppo marcato.
Per renderlo più delicato si può sostituire in parte con dell'olio di semi, o totalmente con dello strutto.
L'olio del nostro Sud, ricavato da olive ben mature e ubriache di sole. è un po' troppo pungente, e va bene da solo sul pane con un pizzico di sale.
Il miele migliore è anche qui quello dal sapore più delicato, un millefiori o d'acacia.
In una ciotola mescolare velocemente tutti gli ingredienti, lavorando inizialmente con una forchetta e poi con le mani.
Aggiungere un cucchiaio di farina all'impasto se fosse ancora troppo morbido e poco lavorabile. Deve risultare morbido e cedevola ma non deve attaccarsi alle dita. Lasciarlo riposare al coperto per una mezz'ora circa. 


Farcitura
500 g ricotta romana di pecora
150 g miele
40 g  pinoli (facoltativi)
2       tuorli
una decina di foglie di lauro, più qualcuna per la decorazione
qualche gheriglio di noce per la decorazione (anche questo facoltativo)
un pizzico di sale
In un pentolino mettere il miele e le foglie di lauro ben lavate e farlo scaldare senza portarlo ad ebollizione.
Se il fuoco dovesse essere comunque troppo forte, farlo riscaldare inizialmente e poi passarlo a bagnomaria per una decina di minuti, girando ogni tanto.
Le foglie dovranno infodere dolcemente e cedere il loro aroma al miele.
Quindi lasciar freddare.
Lavorare a crema la ricotta, aggiungere il miele e i tuorli.
Se si preferisce si possono tostare dei pinoli su un padellino antiaderente e aggiungerli all'impasto dopo averli fatti intiepidire.
Rivestire il fondo e le pareti di uno stampo da 24 cm, oppure uno da 20 cm più uno da 15.
Versare nello stampo la crema di ricotta, livellarne bene la superficie e ripiegare il bordo a cordoncino, appiattendolo con le dita o con l'aiuto di un cucchiaino.
Sulla superficie del dolce disporre delle foglie di lauro e dei gherigli di noce pennellati con poco miele.
Cuocere a 180° per una mezz'ora almeno.


Volendo, i pinoli e le noci si possono anche omettere. Quel che conta è l'aroma del miele al profumo di lauro.

 

Questa invece è la versione integrale.
Parte o tutta la farina dell'impasto può essere sostituita con farina integrale per dare al dolce un sapore ancora più "rustico".


Non so che direbbe Glaphyra, se l'assaggiasse, e in verità sarei davvero curioso di sapere il suo parere.
Certo, sarebbe comunque contenta sapendo che qualcuno la stia ricordando dopo così tanto e tanto tempo.

Detto latino del giorno
Per aspera ad astra. 
Solo con la fatica si ottiene il successo.
Dalle stalle alle stelle, diremmo noi, accentuandone l'aspetto fortunoso.

Oggi ascoltiamo
Giuni Russo - Una rosa e' una rosa
http://www.youtube.com/watch?v=tght-6den6k

NOTE
1) La placenta, dal greco antico plakoys, era una sorta di focaccia. Veniva cotta nel testo, il "forno di campagna" dell'antichità, che si poggiava sulle braci e si corpiva con un coperchio.
2) L’usanza delle candeline accese sulle torte ha davvero origine dai greci.Sugli altari dei templi di Artemide venivano messe delle torte al miele tonde, a rappresentare la luna, sormontate da candeline accese. In base alle credenze popolari le candele, come anche i fuochi sacrificali, hanno il potere di esaudire i desideri e d'essere di buon auspicio.

2 commenti:

  1. ma tu guarda questo: pasticceria di Roma antica :)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Eh, oramai lo sai: quando vado in fissa per qualcosa è la fine.
      Prova quella senza pinoli e noci. Per curiosità. Fai uno stampino piccolo, semmai (da 15) e mezza dose di farcitura.
      Il miele con l'alloro è qualcosa di inesprimibile.
      Ho scoperto anche che un antico dolce romano viene fatto tutt'oggi sotto le feste di natale: una foglia d'alloro con sopra un croccante al miele e frutta secca. La nociata, viene chiamato.
      Lo so, lo so, il tema è off-limits, ma è curioso no? ;-)

      Elimina